Sara Mesa, «La familia», Barcelona, Editorial Anagrama, 2022

Sara Mesa, La familia, Barcelona, Editorial Anagrama, 2022, 225 pp.

Ragguardevole successo di pubblico ha raccolto questo nuovo romanzo della madrilena Sara Mesa, che tra settembre ed ottobre del 2022 ha contato ben tre edizioni e l’approvazione entusiasta della critica.

Nella sua schietta linearità, il titolo concentra il tema e l’approccio della scrittrice, soprattutto in quell’articolo determinativo che sembra non lasciare molto spazio a deviazioni ed orpelli: quella che ci si aspetta e che viene annunciata è appunto la declinazione de ‘la famiglia’ per antonomasia, il modello ideale tramandato e perseguito dai piú, seppur con scarso successo, ma riconoscibile e condiviso. Ognuno dei quattordici capitoli smonta minuziosamente il portato di valori a cui ogni elemento connesso al tema si lega: la casa, riparo, protezione, ma nel contempo luogo da cui fuggire, in cui scomparire; la pretesa trasparenza tra familiari stretti; la labilità delle amicizie; le gelosie tra i parenti; il fragile equilibrio che preserva l’unità; le regole della buona educazione, a volte esasperate; la repressione dei desideri piú spontanei…

Come è facile immaginare, ne scaturisce un quadro antitetico rispetto a quello idealmente annunciato, in cui si dissolvono le divisioni manichee, e le sfumature diluiscono i ruoli di vittime e aguzzini, in un procedere che cela profili sconosciuti e schiude prospettive insospettate. Cadono le maschere funzionali all’età e al rispetto dei ruoli e prendono forma ansie e frustrazioni covate negli anni. Nulla di quanto appariva monolitico e perfetto agli occhi di estranei e vicini corrisponde alla realtà di un nucleo, come tanti, scisso e conflittuale.

Speciale attenzione, ma senza indulgere in pietismo, viene riservata dalla narratrice alle protagoniste femminili, scandagliate nelle loro fragilità e nella loro capacità di adattarsi e di resistere, ma non per questo scevre di responsabilità. Centrale è sicuramente la figura patriarcale, perno di dinamiche contorte pervase da un idealismo anacronistico, che poco si adatta alla realtà in cui si dibattono i familiari, alla ricerca di controllo totale in un impossibile perfetto isolamento. Pur non esercitando una violenza esplicita, rientra in quella perversa ideologia di sopraffazione maschile che Mesa riconosce ancora attuale, con il tacito consenso sociale (cfr.: «A qué debe oler una mujer de bien», Cuadernos hispanoamericanos, n. 833, 2019, pp. 125-128).

Le diverse prospettive, che concorrono al confezionamento della storia e alla caratterizzazione dei personaggi, ricordano in qualche modo le modalità di scrittura dell’affresco allegorico de El verano de la serpiente, romanzo pubblicato da Cecilia Eudave nel gennaio scorso sul tema del microcosmo familiare, che finisce per coinvolgere parenti e vicini in una lettura della realtà che va oltre le apparenze. Temi e approcci, evidentemente, molto sentiti e di grande attualità.

Patrizia Spinato B.

(Notiziario n. 111, gennaio 2023, p. 15)

Tomás Eloy Martínez, «Santa Evita», Roma, Sur, 2019

Tomás Eloy Martínez, Santa Evita, Roma, Sur, 2019, 444 pp.

Il noto romanzo, preceduto da una citazione di Sylvie Piath contenuta nella poesia «Lady Lazarous», si ispira alla leggendaria figura di María Eva Duarte, meglio nota con il vezzeggiativo di Evita. Il libro di Eloy Martínez è stato pubblicato per la prima volta in Argentina nel 1995 ed è divenuto un best seller, tanto da vendere più di dieci milioni di copie. Recentemente è apparso in questa nuova versione della casa editrice indipendente Sur, nella traduzione di Silvia Meucci e con la prefazione di Fabio Stassi. Dal 2022 è disponibile un’omonima serie televisiva distribuita da Disney+.

Santa Evita inizia il 26 luglio 1952, quando termina l’esistenza terrena della protagonista. L’autore ripercorre a ritroso la vicenda di un’attrice inizialmente sconosciuta, proveniente dalla regione di Junín, che fa innamorare il presidente della Repubblica argentina Juan Domingo Perón e l’intera nazione, specialmente le classi meno abbienti, dei descamisados.

Il racconto segue l’avventurosa vicenda legata al suo corpo esanime: inizialmente, la salma è affidata dallo stesso Perón al tassidermista spagnolo Pedro Ara, il quale si dedica all’imbalsamazione. Una volta completata questa tecnica, realizza più esemplari per sottrarli ai macabri tentativi di furto sia degli estimatori, sia dei detrattori, sia dei servizi segreti. Il suo feretro conoscerà trasferimenti, nascondigli in uffici, caserme, e solcherà addirittura l’oceano Atlantico fino a essere trasportato anche in Italia con il nome fittizio di Maria Maggi, vedova De Magistris, nel cimitero vecchio di Sforzatica, una frazione di Dalmine, in provincia di Bergamo.

Il romanzo è sicuramente molto dettagliato per quanto riguarda la ricostruzione degli eventi e la caratterizzazione dei protagonisti coinvolti nella vicenda, ma di non sempre facile lettura a causa proprio di quella dovizia di particolari che non agevolano la linearità discorsiva.

Roberto Riva

(Notiziario n. 111, gennaio 2023, pp. 13-14)

José Hernández, «El gaucho Martín Fierro. La ida y la vuelta», Milano, Casa editrice Principato, 2022

José Hernández, El gaucho Martín Fierro. La ida y la vuelta, Milano, Casa editrice Principato, 2022, 95 pp.

Con il romanticismo nacque e si consolidò in America la letteratura gauchesca, attraverso opere quali Paulino Lucero e Aniceto el Gallo, di Hilario Ascasubi, o Anastasio el Pollo, di Estanislao Del Campo. Ma il momento culminante della poesia gauchesca è rappresentato dal Martín Fierro di José Hernández, che affermò la sua decisa avversione verso un potere che si imponeva con la forza o attraverso qualsiasi tipo di costrizione. Per questo l’autore fu un fiero avversario dei governi di Rosas, di Sarmiento e di Mitre, sebbene finí per tributare omaggio a quest’ultimo.

Hernández nacque nella pampa e combatté come militare a stretto contatto con i gauchos, sui quali si concentrò nella sua attività giornalistica: la conoscenza diretta ed approfondita del contesto gli fece assumere un atteggiamento piú serio, meno pittoresco rispetto ai poeti che lo avevano preceduto, nei riguardi di un mondo a lui ben noto, soprattutto a livello sociale.

Si evince la sua visione amara della società argentina principalmente nella prima parte del poema, La ida (1872), con la protesta verso un mondo ingiusto che allontanava il gaucho dalla sua famiglia e lo emarginava da una società perfetta, rompendo un prezioso arcaico equilibrio; al tempo stesso difendeva i valori incontaminati del mondo bucolico, paradisiaco, idealizzato nell’autenticità della pampa. Noto è il proposito didattico dell’opera, con il suo impegno di elevazione morale attraverso, però, un atto di ribellione verso l’ordine costituito. Per questo motivo il capolavoro di Hernández costituisce il punto di partenza di una letteratura di uomini indomiti e fieri, ricchi e generosi dal punto di vista spirituale. Al tempo stesso, nel corso dell’opera, si distrugge l’elemento umano indigeno, inizialmente considerato forte, abile, rapido, resistente, ma che viene infine connotato da inutilità, prepotenza, barbarie e ferocia. Il gaucho stesso si converte da buono a cattivo nel momento in cui si fa giustizia da solo, per quanto senza rinunciare alla nobiltà intrinseca della sua natura.

La vuelta de Martín Fierro (1878), attraverso l’esperienza negativa tra gl’indigeni selvaggi, rappresenta un atto di fede nella civiltà e il fondamento della grande Argentina del futuro. Il protagonista acquisisce una piena dimensione umana e una perfetta valenza poetica nella sua aspirazione a un concetto elevato e puro della giustizia. Il ritorno al mondo civile assurge a simbolo dell’avventura dell’uomo argentino, drammaticamente sospeso tra l’attrazione verso la libertà primigenia e la necessità di instaurare un ordine sociale stabile.

Grande epopea dell’identità ispano-americana, il Martín Fierro si è affermato anche al di fuori del contesto culturale ispanofono, ricevendo traduzioni e ispirando innumerevoli studi critici. Notevole è la bibliografia prodotta anche nel nostro paese: possiamo, tra le numerosi edizioni, ricordare la selezione critica di Jole Scudieri Ruggieri, del 1955, la traduzione di Mario Todesco, pubblicata postuma dai genitori nel 1959, o lo studio di Fernanda Avanzini, con un profilo dell’autore e note al testo.

L’attualità del poema è confermata da questa nuova edizione del gruppo Principato, che affida alla seria professionalità e alla sensibilità di Eleonora Cadelli la responsabilità di un adattamento ad uso scolastico, per studenti stranieri di livello B2. Le restrizioni pandemiche hanno sicuramente giovato al meditato concepimento di un’operazione editoriale tutt’altro che facile, nel voler preservare la ricchezza del poema, con le sue sfumature formali e verbali, senza banalizzazioni stereotipate, partendo sempre dal testo originale del capolavoro argentino.

Adeguandosi alle necessità didattiche, la curatrice opera quindi una sintesi in prosa dei passaggi fondamentali del poema, di cui riporta anche alcuni brani del testo originale, con note lessicali a fondo pagina. Il volume è introdotto da un profilo di José Hernández, dalla presentazione del poema e dall’approfondimento del contesto storico e letterario. Nella parte finale si concentrano le attività proposte agli studenti per verificare la comprensione del testo e la sua effettiva assimilazione, avvalendosi di un supporto audio e degli ormai imprescindibili contenuti digitali.

Patrizia Spinato B.

(Notiziario n. 111, gennaio 2023, pp. 12-13)

Clara Usón, «L’assassino timido», Palermo, Sellerio, 2019

Clara Usón, L’assassino timido, Palermo, Sellerio, 2019, 186 pp.

Questo romanzo, tradotto in italiano da Silvia Sichel, narra la breve vita di Sandra Mozarowsky, morta prematuramente, apparentemente suicida, il 14 settembre 1977 all’età di diciotto anni.

Nata a Tripoli il 17 ottobre 1958, già ancora prima della maggiore età, Sandra Mozarowsky era diventata una celebre «lolita» delle pellicole erotiche chiamate ‘destape’, una forma espressiva che il regime del Caudillo, nei suoi ultimi anni, preferiva non censurare per diffondere all’estero un’immagine di liberalità in materia di costumi. La carriera di Sandra, però, sarebbe stata corta, poiché in quella notte di metà settembre, mentre annaffiava i fiori sul balcone, si sarebbe esposta oltre il parapetto precipitando nel vuoto. A scapito della versione ufficiale, la sua morte ha sempre suscitato sospetti. Presso l’abitazione madrilena situata in calle Álvarez de Baena, le autorità inquirenti non avrebbero effettuato dei rilievi precisi. Secondo alcune ricostruzioni postume, i mandanti dell’omicidio sarebbero stati i servizi segreti, poiché Sandra era in dolce attesa dopo aver frequentato l’inquilino della «Zarzuela».

Nata tre anni dopo Sandra, Clara Usón racconta non solo la storia della sfortunata promessa del mondo dello spettacolo, ma come Mozarowsky si rispecchia nelle emozioni adolescenziali vissute negli anni ’70. In quel periodo anche la scrittrice nutriva un’irrequietezza contro le regole imposte dal regime, che spesso sfociavano in manifestazioni studentesche represse dalla ‘Benemérita’. Nel libro molto accentuato è inoltre il complesso e dialettico rapporto con la madre Pepa, con il padre Luis –un uomo dedito all’attività forense, spesso lontano dalle mura domestiche–, nonché con i fratelli Blanca e Pablo Usón. Oltre all’incessante parallelismo tra Sandra e Clara, nel racconto compare, quasi fosse un terzo protagonista, l’intellettuale austriaco Ludwig Wittgenstein. Oltre ad alcune disquisizioni sui filosofi dell’antichità e dell’età moderna –Aristotele, Platone, Sofocle, Kant e Russell–, la scrittrice rievoca le opere del drammaturgo Cechov e alcuni passaggi del romanzo di Tolstoj Anna Karenina. Il tema del suicidio è presente dall’introduzione, con un estratto da Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, di Cesare Pavese.

La scrittura di Clara Usón è molto ricercata ed elegante, anche se talvolta diviene un po’ gergale. La lettura non è sempre discorsiva, perché compaiono numerosi dettagli descrittivi. Ad esempio, sono elencate le pellicole in cui Sandra ha interpretato un ruolo di primo piano: Il Collegio della morte, Quando il corno suona, SS, il treno del piacere. Sempre associata alla produzione cinefila, Usón indica gli attori e le attrici che assieme a Sandra hanno calcato il grande schermo in quel decennio: José Luis López Vázquez de la Torre, Jacinto Molina Álvarez, Alfredo Landa Areta, Carlos Ballesteros Borge, Raquel Welch, Mónica Randall, Lyda Zamora Delgado e miss universo 1974, Amparo Muñoz Quesada. In questa vicenda trovano spazio anche altre tre dive: Nadiuska, Bárbara Rey e Raffaella Carrà che, secondo l’autrice, assieme a Sandra sarebbero state le amanti del giovane sovrano Juan Carlos.

Affrontando proprio il tema della monarchia, sono ricostruiti alcuni riferimenti storici concernenti la dinastia borbonica, come le vicende che hanno riguardato la proclamazione della Repubblica nell’agosto 1931, sotto Alfonso XIII, il periodo dell’esilio romano e i rapporti molto tesi tra il principe Juan Carlos e il padre Giovanni di Borbone in materia di successione. Sempre parlando d’istituzioni e delle prime scelte democratiche nella seconda metà degli anni ’70, Usón ricorda la «legge sulla riforma politica» avallata dal referendum del 6 dicembre 1978, menzionando anche le principali personalità partitiche del panorama iberico: il Presidente del Governo Adolfo Suárez González, il leader di Alleanza Popolare Manuel Fraga Iribarne, il Democratico Cristiano Gabriel Cisneros Laborda e l’esponente del Partito Socialista Unificato di Catalogna Jordi Solé Tura.

Tornando invece alla biografia di Clara, emergono molti dettagli della sua infanzia, quando con i genitori si recava nella località sciistica aragonese di Formigal con la Seat 1430 e mentre era in automobile ascoltava le canzoni di Nati Mistral, María Dolores Pradera, Haydée Mercedes Sosa e Paco Ibáñez. Oltre a questo paesino nel cuore dei Pirenei, la trama è ambientata principalmente tra Barcellona e Madrid, a seconda che si parli di Clara o di Sandra. Tuttavia, escludendo alcuni adattamenti filmici situati in America Latina, compaiono altri luoghi che rimandano agli anni in cui Usón frequentava la facoltà di giurisprudenza, come Ciutadella de Menorca, dove la giovane trascorreva le vacanze estive.

Per la vicenda Mozarowsky, l’autrice lamenta l’esiguità di fonti primarie. Per documentarsi, ha consultato Wikipedia, ma anche alcune riviste che all’epoca avevano raccontato questo tragico avvenimento: Pronto, Primera Plana, Hola, Diez minutos, Garbo. Usón ha anche letto la dettagliata ricostruzione del giornalista Andrew David Morton, Ladies of Spain, che offre un panorama molto esaustivo sulle dinamiche della corte spagnola.

Roberto Riva

(Notiziario n. 110, novembre 2022, pp. 17-18)

Rafael Ángel Herra, Il Genio maligno, Salerno / Milano, Oèdipus, 2019

Rafael Ángel Herra, Il Genio maligno, Salerno / Milano, Oèdipus, 2019, 168 pp.

Per i tipi di Oèdipus esce nella traduzione di Saul Forte il «romanzo-saggio-raccolta», come recita il risvolto di copertina, El ingenio maligno, del filosofo e letterato Rafael Ángel Herra, pubblicato per la prima volta in Costa Rica nel 2014. Introdotta e curata da Rosa Maria Grillo, l’edizione italiana è illustrata con forza suggestiva dall’artista, pure costaricana, Mónica Salazar Arce.

Come sottolinea Rosa Maria Grillo a chiusura del saggio introduttivo, «Alla ricerca del racconto perduto», già alla fine de El genio de la botella (1999) si trovavano in nuce temi e personaggi del libro che qui si presenta in traduzione: «il cane Perropinto racconta al Genio Aldebarán, rinchiuso nella bottiglia, la storia del cane Diogene e del suo Maestro» (p. 9).

L’incipit vede Aldebarán, conosciuto come «Genio maligno» per l’assurdità delle sue storie, che come di consueto inizia a scrivere per sconfiggere la solitudine: «Imparò a godere delle disgrazie altrui anche se immaginarie, per non soffrire per le proprie. Per la sua condizione, imprigionato senza rimedio, gli era proibito l’accesso al mondo che, quindi, non esisteva. Le finzioni furono un modo di inventarlo. Lo distraevano e attenuavano il dolore che gli procurava il castigo. Forse una mattina felice, uno dei personaggi di sua invenzione lo avrebbe aiutato a estrarre il tappo della bottiglia. Il mondo solo poteva essere quello che nasceva da quei racconti e il liberatore ne avrebbe fatto parte. Se non riusciva a scappare, almeno si sarebbe arricchito con le sue favole» (p. 13).

Se la prima pagina del quaderno delle finzioni resta bianca, dalla seconda prende corpo Diogene, il cane chiacchierone che ascolta e che si azzarda a mettere in discussione e a rielaborare le favole del genio. Il contrappunto che si genera dà vita, dal nulla, a parole, concetti, sentimenti, storie prima inesistenti. E Aldebarán, che ambisce «ad essere il narratore di tutte le storie, che sono una stessa storia» (p. 19), chiarisce al cane che «qualsiasi racconto è quello che è a seconda del modo di raccontarlo» (p. 18). Il libro sacro, il grande romanzo del mondo, gioco narrativo né vero né falso che si ripete e si rigenera all’infinito, prosegue fino a quando il genio creatore / padre crudele interrompe l’illusione dell’esistenza dei personaggi, i vaneggiamenti, i racconti assurdi, i silenzi, per restare nella propria prigione, in attesa che qualcosa accada vicino al fiume.

I modelli biblici, i miti classici, i personaggi della letteratura universale si intrecciano e danno vita ad un universo onirico, continuamente cangiante ma al tempo stesso sempre uguale, in un gioco di scatole cinesi senza fine: non solo il cane esiste come parte della storia per volontà di Aldebarán, ma anche quest’ultimo è creatura di un altro genio crudele che da un momento all’altro può gettarlo nell’oblio: «Aldebarán chiuse cosí la storia. Lo sfortunato ignora che solo esiste perché io lo nomino. Anche io finisco adesso di scrivere mentre attendo: forse passerà galleggiando il cadavere del mio nemico» (p. 166).

Patrizia Spinato B.

(Notiziario, novembre 2022, pp. 16-17)

Dario Varini, «Il circolo Pessoa», Milano, Leone Editore, 2021

Dario Varini, Il circolo Pessoa, Milano, Leone Editore, 2021, 208 pp.

Ricardo Reis è molto timoroso di volare, ma vuole superare la sua fobia e s’imbarca con un cargo della South American Airways che da Rio de Janeiro fa rotta verso Lisbona. L’altro protagonista è Leonardo, un milanese che, dopo aver tentato di cambiare il mondo negli anni ’70, ha subito il reflusso politico dei decenni successivi ed ora necessita di rompere gli schemi di una vita abitudinaria e decide di trascorrere alcuni giorni assieme a Ricardo. Il terzo componente della compagnia si chiama Fernando Pessoa, come il noto poeta, ed è colui che guida i tre amici in disquisizioni storiche e letterarie attraverso un viaggio surreale nel Portogallo, dove gli avvenimenti di stretta attualità s’intersecano con le vicende di un passato lontano.

Il racconto potrebbe risalire ai primi mesi del 2020. Tra gli avvenimenti che lo scrittore fa riportare al quotidiano Diário de Notícias vanno segnalati la presenza dei «gilet gialli» e il movimento delle «Sardine», nato in Italia e proliferato anche in Portogallo. Copiosi sono i riferimenti toponomastici della capitale situata a ridosso dell’Atlantico: il giardino zoologico di Sete Rios, il Palácio dos Marqueses de Fronteira, i quartieri di Monsanto, Chiado, Santa Justa, Belém, Sintra, il Mercado da Ribeira, le vie di Alacrim, dei Douradores, Garrett, le fermate di Restauradores e Rossio, il Miradouro de Santa Catarina, la piazza Marquês de Pombal, la statua di Adamastor e l’aeroporto Humberto Delgado.

I tre compagni di questo informale ma consolidato sodalizio culturale compiono inoltre un viaggio attraverso luoghi meno visitati del territorio lusitano. Anche in questo caso Varini riporta i nomi delle località in cui i protagonisti transitano: l’Algarve, Ribatejo, Entroncamento, Bela Rio, Tomar, il distretto di Santarém, Tavira –famosa per il carnevale in maschera– e la fortezza di Cacela Velha, che domina un panorama marittimo fiabesco. Nel romanzo rientrano anche alcune località spagnole, come Bilbao e Badajoz.

Durante il loro peregrinare, oltre a disquisire sulle opere di Charles Dickens e di Simon Winchester, il trio s’immerge in discussioni che riguardano i momenti salienti dell’Europa e dell’area lusitana nell’ultimo millennio. Già dal Medioevo fanno irruzione personaggi molto noti: i templari Ugo di Pains e Gualdim Pais, l’arcivescovo di Gerusalemme Guglielmo da Tiro, il sovrano Filippo IV il Bello, i Pontefici Bonifacio VIII, Clemente V, Giovanni XXII. Trovano spazio nei loro discorsi anche le gesta del Saladino e la mitezza di San Francesco d’Assisi, che durante una crociata avrebbe anticipato l’ideale ecumenico incontrandosi col sultano Malik al Ka. Nella disanima dell’“età di mezzo” non sono dimenticati illustri letterati come Cavalcanti, Dante, Petrarca, Ficino. Proseguendo in linea temporale, sono analizzate le epoche dei più illustri esploratori, come Vasco De Gama, e alcuni meno noti, come Alfonso de Albuquerque. Associato alla conquista del Brasile, Fernando narra la biografia del missionario António Vieira che, come Bartolomé de Las Casas, si è battuto per la salvaguardia delle popolazioni autoctone. Per quanto riguarda il diciassettesimo secolo, oltre a disquisire dei giansenisti, di Racine e di Molière, i tre amici ripercorrono la vicenda di Mariana Alcoforado, una monaca del convento di Nossa Senhora da Conceição in Beja che, come Virginia de Leyva a Monza, intrattenne una relazione segreta con un ufficiale francese, il maresciallo Noël Bouton. Per quanto concerne il periodo contemporaneo, il gruppo rievoca un avvenimento drammatico legato ai repubblicani Alfredo Costa e Manuel Buíça che, il 1 febbraio 1908, uccisero Carlo I e Luigi Filippo Braganca; uno spartiacque che in breve tempo avrebbe esautorato la monarchia portoghese. Trattando del regime salazariano, sono menzionati due fatti: il primo, legato alle lotte contadine organizzate da Germano Vidigal e Alfredo Lima, due braccianti uccisi dalla «PIDE»; il secondo, legato alla municipalità marittima di Grandola, dove da metà degli anni ’60 è attiva la Sociedade Musical Fraternidade Operária Grandolense, un presidio che avrebbe osteggiato il regime fino alla notte della Rivoluzione dei Garofani, il 25 aprile 1974.

Tra musiche del compositore Luís de Freitas Branco, un bicchiere di Madeira Bual e una picanha con riso bianco e fagioli, lo scrittore e insegnante verbano Dario Varini racconta con dovizia di particolari il viaggio culturale di tre amici di vecchia data che si dilettano ad interpretare eventi del passato.

Roberto Riva

(Notiziario n. 109, settembre 2022, pp. 17-18)

Diamela Eltit, «Manodopera», traduzione e nota critica di Laura Scarabelli, Napoli, Alessandro Polidoro Editore, 2020

Diamela Eltit, Manodopera, traduzione e nota critica di Laura Scarabelli, Napoli, Alessandro Polidoro Editore, 2020, 164 pp.

A quasi vent’anni dalla prima uscita, Mano de obra si pubblica in italiano nella precisa e raffinata traduzione di Laura Scarabelli, che giustamente le è valso il premio IILA nel 2021. È il napoletano Alessandro Polidoro a darlo alle stampe, sesto numero della collana «I Selvaggi».

Il romanzo si presenta diviso in due parti. Nella prima, ripartita in otto capitoli, un io narrante indeterminato, bassa manovalanza di un supermercato, si esprime in prima persona, trascinando violentemente il lettore nella routine alienante della grande distribuzione. Molti i nemici in agguato, da cui difendersi. Da un lato i clienti, che ispezionano i prodotti, li toccano, li danneggiano, si lamentano, fanno domande: «Mi adeguo alle richieste. […] (Non soffro mai eccessivamente). Sono un corpo che sa adattarsi all’astio circostanziale e imprevedibile che invade i clienti» (p. 21). Dall’altro i temuti capireparto, pronti a raccogliere lamentele e a verificare mancanze, per minacciare punizioni e licenziamenti: «i supervisori […] vivono ogni momento come se fosse l’ultimo e, proprio a causa dell’inquietudine generata da questa situazione, mi perseguitano e mi fanno passare la giornata sommerso nel (relativo) malessere che ora sto cercando di esprimere» (p. 25). Ma anche il tempo, dilatato nella postazione lavorativa, esercita il suo potere perverso sul commesso stremato dalla fatica e dalla tensione, fino alla richiesta ultima di un turno d’emergenza natalizio di ventiquattr’ore, «Senza nessuna tregua» (p. 58), senza straordinari, senza bere, senza mangiare, senza pause igieniche, nell’imminenza del licenziamento. L’ossessione del lavoro si trasmette dalla veglia al riposo, accentuando la stanchezza, l’apatia e le patologie latenti: «Questa luce ossessiva mi affligge e mi produce la sensazione di una vertigine permanente. Sono malato […]. Poco concentrato, smemorato e leggermente assente da tutto ciò che sta accadendo all’interno di questo reparto» (p. 42).

La seconda parte si presenta divisa in diciannove capitoli e declina le potenziali voci –Gloria, Alberto, Enrique, Gabriel, Sonia, Isabel…– che, in modo apparentemente omogeneo, componevano la sezione precedente: «Esausti e sconfitti dal cartellino appeso sul grembiule. Insultati dall’umiliazione di esibire i nostri nomi. Logorati dall’obbligo di mantenere intatti i nostri sorrisi tra le corsie. Stravolti e mortificati perché nessuno si rivolgeva a noi come si doveva. Sconfortati dalla reiterazione di domande idiote, tristemente abituati a ricevere rimproveri, penosamente obbligati a mascherarci» (p. 97). Un’indefinita e apparentemente compatta prima persona plurale passa in rassegna i personaggi di un microcosmo angosciante e violento, bestiale, in cui l’istinto di sopravvivenza ha la meglio su ogni principio di rispetto, di solidarietà e di affetto. Su tutto e su tutti incombe la possibilità del licenziamento, senza preavviso. Non esiste pietà per debolezze e cedimenti: anche gli ingranaggi della sfera pseudo-privata devono funzionare perfettamente, pena il declassamento fino all’espulsione dalla comunità parallela. L’io collettivo vigila senza posa, non risparmiando disprezzo, diffidenza e posizioni complottiste verso ciascuno dei singoli: incombe una privazione dell’umanità a tutto tondo, che rasenta la pazzia, l’allucinazione, la demenza.

La scrittrice cilena riesce sapientemente a trasmettere le sensazioni di un ambiente asfittico, malato, opprimente, generando ansia nel lettore che inevitabilmente si riconosce in un sistema spersonalizzante e fagocitante, in un’umanità fragile e insicura. Il romanzo costituisce un’esperienza narrativa di grande intensità, che va oltre l’allegoria della classe operaia cilena per svelare i prodromi di una società capitalista vuota e abietta. Ma, come sottolinea Laura Scarabelli ne «Il mondo-supermercato di Diamela Eltit: un esercizio di lettura», «Nonostante il ritratto spietato di un mondo impossibile e invivibile, c’è ancora speranza, nella stessa presenza dei corpi assediati del mercato che, nonostante tutto, resistono e testimoniano la consistenza dei loro mali» (p. 158).

Patrizia Spinato B.

(Notiziario n. 109, settembre 2022, pp. 16-17)

Mario Paoletti, «Memorias de un renegado. Historias de la cárcel. Y del exilio. Y del desexilio», Bernal, Universidad Nacional de Quilmes Editorial, 2020

Mario Paoletti, Memorias de un renegado. Historias de la cárcel. Y del exilio. Y del desexilio, Bernal, Universidad Nacional de Quilmes Editorial, 2020, 232 pp., https://ediciones.unq.edu.ar/569-memorias-de-un-renegado.html

Per scongiurare una fisiologica perdita di memoria e sopperire la diffusa rimozione dei compagni di carcere, Mario Paoletti (1940-2020) consegna, poche settimane prima di venire a mancare, questa sua biografia, che prende l’abbrivo dal suo arresto in Argentina, come fondatore e collaboratore, con il fratello Tito, della testata El Independiente, e si conclude alla vigilia della sua dipartita, nella patria di elezione.

Il libro, pubblicato dall’Università Nazionale di Quilmes, si compone di quattro capitoli e di un epilogo. A Margarita Pierini, direttrice della collana Textos y lecturas en ciencias sociales, viene affidato un breve paragrafo introduttivo, mentre di Enrique Pochat, docente di Diritti Umani presso la medesima Università, è la firma della postfazione, dal titolo Una memoria necesaria, in cui si traccia il quadro storico e politico che fa da sfondo alle memorie di Paoletti.

Il primo capitolo si muove intorno alla prigionia e alle diverse esperienze carcerarie dell’autore, da Devoto a Sierra Chica, a La Rioja, al carcere verde di Paraná, alla Plata, a Caseros. Gli assi tematici sono quelli canonici del contesto detentivo: la violenza, la fame, la pazzia, la condivisione, la paura, la sporcizia, l’isolamento, la tristezza, la disperazione, la nostalgia, la speranza. La routine della ‘Gran Cloaca’ viene interrotta solo dai segnali che annunciano la prossima scarcerazione e che innescano nuove reazioni: cambiano i sogni, cambiano le relazioni con gli altri prigionieri, si produce un senso di colpa verso chi resta. I tempi si dilatano ma alla fine, sommessamente, Paoletti torna in libertà.

Il secondo capitolo affronta il macrotema dell’esilio, con la solidarietà, la ricerca della normalità, l’apatia politica, le contraddizioni etiche, la comprensione, le regressioni oniriche che accompagnano gli ex detenuti nelle patrie adottive. Mario Paoletti, dopo un brevissimo transito in Canada, si stabilisce in Spagna, che già conosce e dove risiedono familiari e amici; paese in fervore, appena uscito dalla dittatura, di cui condivide la lingua. Il suo exilito dura solo tre anni e mezzo ma gli permette un rapido e fulgido ritorno alla vita normale, nonostante i permessi provvisori significhino una permanente minaccia di espulsione. In questo periodo transita dall’iniziale assistenzialismo all’indipendenza economica, passando per impieghi poco graditi; infine, dalle borse di studio, al meritato riconoscimento professionale. Alla caduta della dittatura si palesa una duplice opzione: tornare in patria, come fa immediatamente il fratello Tito, oppure restare nel paese d’elezione.

Il terzo capitolo esordisce con il frustrato tentativo di rientro, in una società ancora dominata dai codici dittatoriali, dove «resultó que el exilio, que en España se había terminado, seguía vigente en mi propia tierra. Y entonces, por segunda vez, volví a sentirme expulsado, no querido y maltratado» (p. 187). Paoletti patisce un ritorno alla democrazia post-bellico canonico, soprattutto in situazioni di guerra civile, quando a livello istituzionale si mescolano le opposte fazioni e si impone un pericoloso interregno che annulla qualsiasi scontata garanzia costituzionale. Per codificare la scelta ormai consolidata di restare in Spagna, fa proprio il neologismo coniato da Benedetti, desexilio, che abbraccia i nuovi affetti, i nuovi spazi, il nuovo tempo.

La quarta parte fa brevemente il punto sui principali personaggi e sulle situazioni chiave della storia: Néstor, Tito, Pilar; l’Alzheimer familiare, l’indulto in Argentina, la felicità ritrovata. L’epilogo chiude il cerchio su irrilevanti questioni etiche, quali il senso di appartenenza nazionale, legata piú ai ricordi del passato che ad ansie identitarie ormai dissolte. Entra qui in scena il potenziale ‘rinnegato’ evocato dal titolo, che conclude salomonicamente: «En este momento de mi vida solo soy capaz de alentar dos convicciones: que la crueldad deliberada es imperdonable y que una sociedad estructurada sobre la base de ricos y pobres es un escándalo. Todo lo demás es negociable» (p. 226).

Sebbene i temi trattati, soprattutto in ambito latinoamericano, siano un po’eccentrici rispetto alle mode letterarie attuali, questa biografia di Paoletti conferma l’alto valore umano e letterario della sua opera, che qui trova ideale compimento. Non solo per la forza degli argomenti trattati, ma anche per la qualità della penna e per la vis ironica che lo domina, la produzione narrativa di Mario Paoletti merita di trovare il giusto riconoscimento nelle lettere ispanoamericane.

Patrizia Spinato B.

(Notiziario n. 109, settembre 2022, pp. 14-15)

Cecilia Eudave, “El verano de la serpiente”, 2022

Cecilia Eudave, El verano de la serpiente, México, Alfaguara, 2022, 137 pp.

La lettura di un libro di Cecilia Eudave suppone sempre un’avventura emotiva molto forte, da affrontare con consapevolezza e nei tempi debiti, per non vanificare l’occasione di appropriarsi dell’atto letterario, di dargli nuova linfa adattandolo alla propria esperienza vitale. Non sfugge a questa regola neppure il suo ultimo romanzo, El verano de la serpiente, edito da Alfaguara in Messico e tra poco, apprendiamo, anche in Perú, a riprova del crescente successo di pubblico e di critica della narratrice messicana, e non solo nel nuovo continente.

Si tratta di un romanzo polifonico, diviso in nove capitoli, ognuno dei quali è affidato ad una voce diversa che si presenta e che dà una personale versione del composito microcosmo di cui tratta. Personaggi solitari e famiglie allargate, anziani e bambini, uomini e donne, tutti hanno una prospettiva in qualche modo privilegiata della realtà di quartiere che condividono, sebbene a volte si fatichi a distinguere i corpi dalle ombre, gli animali dalle persone, in una voluta e studiata liquidità. Fili conduttori, presenze costanti nel libro, sono fantasmi e serpenti antropomorfizzati, che fanno capolino in ogni capitolo e svelano, con l’ubiquità, la propria privilegiata onniscienza.

Dedicato a Carmencita Herrera, a significare le comuni ‘assenze presenti’ e a rimarcare il fondo di melanconia che soggiace al testo, il libro si apre e si chiude con due serie anaforiche che introducono, nel primo e nell’ultimo capitolo, due anni ‘insoliti’, mutuando la stessa definizione che la studiosa Carmen Alemany Bay ha coniato per caratterizzare la narrativa eudaviana rispetto a categorie piú generiche all’interno del fantastico.

Maricarmen, io narrante di entrambi i capitoli, uno e nove, affastella ricordi a riprova della sua affermazione: «El año de 1977 fue insólito, lo supe desde antes del verano porque en Miami nevó por primera y única vez» (p. 11). E, dopo una lunga enumerazione di fatti occorsi a livello mondiale, l’obiettivo si stringe sulla sua realtà locale, familiare. Ad una fiera di quartiere la bambina scopre la triste realtà della donna serpente, «una pobre chica que fue transformada en culebra por desobedecer a sus padres» (p. 13), dannata che segna il suo immaginario con un oscuro vaticinio: «Ve más allá de lo visible, déjate guiar por los ojos de la serpiente» (p. 17), instaurando una speciale connessione tra le due fanciulle (p. 18).

Allo stesso modo, il nono capitolo si apre quasi con la medesima locuzione, «El año de 2017 fue insólito, lo supe desde antes del verano» (p. 127): ma questa volta il racconto è sotto forma di un discorso diretto, al padre, di cui dopo un quarantennio si compiono alcuni pronostici. La camera, adesso, non ha piú bisogno di abbracciare troppi fatti dell’universo mondo, ma mette il fuoco sull’epilogo delle tante storie intrecciate nei capitoli precedenti: un aggiornamento distaccato, superiore, ad uso dell’interlocutore privilegiato, il tormentato genitore.

Se la polifonia dei capitoli intermedi costringe a prestare attenzione alle pieghe del testo e contribuisce alla composizione del fitto mosaico in cui ogni tassello è prezioso per apprezzare il risultato ultimo, l’epifania conclusiva chiude il cerchio e capovolge le chiavi interpretative, costringendo ad una ‘rilettura’ del racconto. Molte le riflessioni che ne scaturiscono, come ad esempio sul potere evocativo degli oggetti, che custodiscono e perpetuano la memoria: «Con frecuencia me pregunté por qué las cosas, las pequeñas cosas domésticas que dormitan en nuestro quehacer cotidiano, cuando intentamos abandonarlas abren con desmesura sus emociones y nos conducen a la añoranza» (p. 129). Tutto il nono capitolo, con una forte carica poetica, gioca sull’alternanza presenza/assenza, presente/passato, essenza/apparenza, per affermare continuità ed una certa libertà ad un livello superiore, oltre i pesanti vincoli spazio-temporali imposti dalla prosaica razionalità.

P. Spinato B.

(Notiziario, n. 109 pp. 18-19)

Jean Marie Le Clézio, «Alma», traduzione italiana di Maurizia Balmelli, Milano, Rizzoli, 2021

Jean Marie Le Clézio, Alma, traduzione italiana di Maurizia Balmelli, Milano, Rizzoli, 2021, 283 pp.

Jean Marie Le Clézio (Nizza, 1940), straordinaria figura poliedrica della letteratura contemporanea, premio Nobel nel 2008, è scrittore, saggista, traduttore, etnologo e come tale autore di importanti ricerche effettuate presso nativi americani negli USA, Messico e Panamà, nonché su popolazioni autoctone coreane.

Con Alma conclude la sua trilogia narrativa dedicata alle Mascarene, arcipelago dell’Oceano Indiano, del quale Mauritius è l’isola principale. Alma è in realtà una cittadina mauriziana ormai scomparsa, il luogo della casa avita dei genitori, di origine bretone e irlandese, del protagonista, il giovane Jérémie Felsen, ego-narrante che si reca per la prima volta a Mauritius per preparare la propria tesi, dedicata a un uccello isolano endemico, estinto da secoli, del quale conserva un’antica pietra da ventriglio regalatagli dal padre. Il soggiorno sull’isola lo spinge a rintracciare le radici della propria famiglia di coloni, già titolari di una piantagione di canna da zucchero. La trama del romanzo, dal contenuto in parte autobiografico, si configura come una vera e propria narrazione corale, che l’autore manovra con eccezionale maestria, inserendo, accanto alle voci dei principali personaggi, testimonianze dirette, antiche e recenti, che segnano il divenire, spesso agghiacciante, di un passato schiavista e coloniale: «De tous ces noms, de toutes ces vies, ce sont les oubliés qui m’importent davantage, ces hommes, ces femmes que les bateaux ont volés de l’autre côté de l’océan, qu’ils ont jetés sur les plages, abandonnés sur les marches glissantes des docks, puis à la brûlure du soleil et à la morsure du fouet».

Malgrado i suoi suggestivi orizzonti e le acque azzurrissime, l’isola conserva infatti le visibili tracce della sua tormentata storia: dalla tratta degli schiavi alle guerre e alla pirateria, fino all’estinzione dell’uccello simbolo di Mauritius, il massiccio dodo o dronte, incapace di volare e sfuggire all’avidità dei predoni di oltreoceano. La sua fine coinvolgerà anche un albero endemico isolano, sopravvissuto stentatamente fino ai giorni nostri, il tambalacoque, che in passato prosperava proprio grazie alla diffusione dei semi attuata dal grosso volatile. Nel testo affiorano sovente gli echi della pluridecennale attività etno-antropologica di Le Clézio, perfettamente adattati e complementari alla dimensione narrativa. Così accade, tra l’altro, per il patois franco-creolo che caratterizza l’identità mauriziana, tenacemente sopravvissuto alla conquista e alla dominazione britannica: «Ça pou’ s’effacer» (=si può cancellare), «Mo pé donner la peintire» (=ci va la vernice).

Alle vicissitudini di Jérémie si affiancano quelle del deuteragonista, Dominique, l’ultimo Felsen mauriziano, meticcio, soprannominato ‘Dodo’ (come l’uccello estinto) o ‘Coup de ros’, che narra, pure in prima persona, gli episodi salienti della propria vita fino al decadimento fisico, causato da una malattia venerea che, devastandolo nel viso e nel corpo, lo riduce a mendico vagante da un capo all’altro dell’isola in cerca di assistenza. Solo grazie alla sensibilità femminile troverà l’aiuto necessario per sopravvivere, finché Vicky, la dirigente di una onlus cattolica, non lo convincerà a trasferirsi in Francia, presso un centro di sostegno medico e sociale, dal quale tuttavia si allontanerà assieme a un compagno di origini algerine, Béchir, in un lungo ed estenuante vagabondaggio da Parigi a Nizza: «J’imagine que je pars là-bas en France, dans le grand avion, et j’ai peur. C’est un trou devant moi comme si je tombe en marchant la nuit dans les cannes. Chaque jour depuis que je gagne le pari de Missié Hanson, je vais à pied et en bus pour voir ces endroits que je ne vais plus voir, je crois que c’est ça qu’on doit faire au moment de mourir».

Le peregrinazioni di Dodo attraverso la sua isola e, successivamente, nella Francia continentale, intrise di penosa rassegnazione, sfumano spesso nella nostalgia di un passato irripetibile, dai ricordi confusi, dominato dalle note di una antica ballata gaelica, Auld Lang Syne, che Dominique ancora riesce a suonare al pianoforte, con le sue mani martoriate. La penna di Le Clézio conduce Dodo lungo un percorso seminato di ipocrisie nonché di violenze criminali, spesso a sfondo sessuale e xenofobo, alle quali si abbandonano, tanto a Mauritius come in Francia e in tutto l’Occidente ‘civile’, i figli dei ceti abbienti e del sottoproletariato in un’assurda, reazionaria convergenza. L’ultimo Felsen mauriziano conoscerà sulla propria carne la brutalità del teppismo razzista.

Anche il cammino di Jérémie incrocia i destini di personaggi che si riveleranno determinanti per la comprensione del contesto isolano: dalla ultranovantenne Emmeline, lontana parente, alla giovane prostituta Kristal, le cui tracce seguirà in maniera ossessiva: «J’ai décidé de partir à sa recherche. Remonter tous les chemins qu’elle a parcourus». Il giovane passerà da una delusione all’altra, constatando come gli ideali di democrazia e di giustizia arrancano faticosamente, traditi da una borghesia (nella quale spiccano pure alcuni eredi dei Felsen) tuttora rinchiusa tra anacronismi e privilegi di stampo coloniale.  Scoprirà che la devastazione dell’ambiente e il brutale sfruttamento degli esseri umani sono figli della stessa anticultura e procedono insieme, su strade parallele. Tuttavia, un’escursione in piroga con l’amico Antoine attraverso luoghi incontaminati e quasi magici gli restituirà una ventata di ottimismo. La sua fiducia nel futuro dell’isola si riaccenderà grazie anche all’incontro con la giovane Aditi, della comunità indo-mauriziana, guardia forestale volontaria che conduce Jérémie in uno degli ultimi, irriducibili santuari della natura autoctona. Aditi, barbaramente violentata, darà alla luce una creatura figlia dello stupratore, che accetta come sua perché quella nuova vita possa contrapporsi alla violenza sofferta. La chiave della rigenerazione di quest’isola, dove il passato anche recente gronda di sangue umano e langue per la distruzione di fauna e flora di quella che fu una perla dell’Oceano Indiano, sta nella forza stessa della natura, che l’uomo ha il dovere di assecondare e che rinasce nei luoghi abbandonati e dimenticati, spesso fra le pieghe degli scempi ambientali, a poca distanza dai fragorosi insediamenti turistici, fagocitati dallo sfarzo inutile delle luminarie e dalle musiche assordanti.

Patryck Froissart (Borinage, 1947) insigne esponente del mondo letterario francese, membro della «Société des Poètes et Artistes de France», romanziere, poeta e saggista, docente e ispettore didattico in Francia, Marocco, Isole Réunion e nella stessa Mauritius, in La Une Livres, Les Livres Critiques, Roman coglie perfettamente l’essenza del messaggio umano e letterario di Le Clézio: «Alma s’inscrit dans le droit fil de la plupart des romans de J-M G. Le Clézio, dans leur thématique obsédante, celle du voyage, de la quête, de la trace perdue de ce qu’il faut retrouver. Lire Alma, c’est se replonger dans cette atmosphère à la fois intime et étrangement décalée au sein de l’espace-temps du Chercheur d’or ou plus particulièrement du Voyage à Rodrigues».

Al rientro in Francia, Jérémie vedrà il suo Paese con occhi diversi e deciderà di consegnare la pietra del dodo a un museo. Il tassello finale della narrazione è un ricordo che riaffiora dai meandri della sua memoria, anni dopo, e lo porterà a riconoscere in un ignoto e disorientato pedone da lui salvato dall’irruenza del traffico in un viale di Nizza, lo stesso Dodo Felsen, profugo ormai esausto nel macrocosmo metropolitano.

Dal 2021 Alma è disponibile anche nell’eccellente traduzione italiana effettuata da Maurizia Balmelli.

Nando Pozzoni

(Notiziario n. 107, maggio 2022, pp. 19-21)