Ulisse Aldrovandi e le novità dell’altro mondo

ULISSE ALDROVANDI E LE NOVITÀ DELL’ALTRO MONDO

Alessandra Cioppi
(CNR – ISEM – Università di Milano)

L’8 dicembre 2022 si è inaugurata a Bologna, presso il Museo di Palazzo Poggi, la mostra dal titolo L’altro Rinascimento. Ulisse Aldrovandi e le meraviglie del mondo, la cui chiusura è prevista il 10 aprile 2023.

L’esposizione è stata curata nell’ambito delle Celebrazioni aldrovandiane (1522-2022) dal Comitato Nazionale Ulisse Aldrovandi, costituito dal Sistema Museale d’Ateneo dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, sotto la conduzione scientifica di Roberto Balzani, Giuseppe Olmi e Giovanni Carrada, dalla Biblioteca Universitaria di Bologna, con la direzione di Francesco Citti e Giacomo Nerozzi, e, infine, dall’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche in accordo con il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, sotto la guida scientifica di Alessandra Cioppi e Maria Elena Seu. Il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha reso possibile l’allestimento del percorso museale e delle installazioni digitali. 

L’altro Rinascimento, mostra ideata in occasione del V Centenario della nascita di Ulisse Aldrovandi (Bologna, 11 settembre 1522 – 4 maggio 1605), naturalista, botanico, medico ed entomologo del Cinquecento-Seicento, si presenta come un’opportunità culturale e allo stesso tempo come una grande sfida. L’opportunità consiste nella valorizzazione del corpus aldrovandiano, una smisurata collezione che viene analizzata ed esposta con grande rigore scientifico nelle splendide sale affrescate di Palazzo Poggi. La sfida, invece, è caratterizzata dal tentativo di intercettare un pubblico il più possibile ampio per rendere l’esposizione di questo eccezionale patrimonio culturale un’espressione tangibile dell’impegno scientifico e divulgativo propri del naturalista e collezionista bolognese, personaggio di grande caratura del Rinascimento italiano, anche se, forse, meno noto di altri scienziati, artisti e letterati dell’epoca.

In verità, Ulisse Aldrovandi era già considerato, presso il pubblico colto internazionale a lui contemporaneo, un’icona dell’impegno scientifico in quella prospettiva che ora potremmo definire ‘interdisciplinare’, ed era ritenuto un illuminato precursore di quell’approccio metodologico oggi chiamato ‘Terza Missione’. Per Aldrovandi, infatti, il trasferimento scientifico e culturale delle conoscenze fu sin dal principio molto chiaro: era fondamentale poter passare dalla realtà di una collezione privata alla sua comunicazione universale attraverso la rappresentazione pittorica e il libro a stampa illustrato. Per raggiungere questo obiettivo Aldrovandi aveva allestito una vera e propria impresa culturale, era riuscito a ‘creare reti’ con colleghi, specialisti, scienziati e ‘imprenditori’ contemporanei. Difficile immaginare qualcosa di più prossimo al suo desiderio di diffondere il sapere, di contaminare la società civile, di disseminare i risultati della ricerca sul territorio, attività che ai giorni nostri sentiamo appartenere strutturalmente alla ‘Terza Missione’ delle Università e del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

L’eredità scientifica di Ulisse Aldrovandi, tuttavia, non si ferma qui. Comprende un’altra intuizione, la quale, malgrado i cinquecento anni trascorsi, lo rende uomo del nostro tempo: la tutela del patrimonio culturale da lui raccolto che volle donare al Comune di Bologna perché fosse reso pubblico. Ciò gli permise di salvare i suoi volumi di erbari, le carte, i libri, i disegni e svariati oggetti, impedendone la dispersione e consegnandoli alle generazioni future.

Le sue collezioni sono incredibilmente estese e assolutamente intellegibili nonostante la distanza di mezzo millennio. Esse presentano una documentazione dettagliata dei processi culturali, delle relazioni intellettuali, della selezione e della classificazione di piante ed esseri viventi, dei supporti editoriali e grafici utilizzati per la trasmissione e la disseminazione ‘a distanza’ dei risultati della sua ricerca, grazie ai disegni acquarellati, dapprima, e alla stampa, poi. La raccolta delle ‘cose di natura’ e la loro rappresentazione plastica conferiva alle nozioni teoriche una concretezza sperimentale: i reperti del mondo vegetale, animale, minerale potevano essere direttamente e diversamente osservati. Un unicum per l’Europa del tempo e quindi, considerando il periodo di riferimento, del mondo. Lo stesso Aldrovandi nella sua autobiografia ricorda come «prìncipi, signori et persone letterate andassero a visitare con maraviglia in casa sua quella specie di ‘teatro di natura’».

Nel percorso espositivo della mostra, allestita dal Comitato aldrovandiano, non doveva mancare, quindi, quel processo di ripensamento del ‘fenomeno Aldrovandi’ che avrebbe consentito, lungo un’unica trama logica e narrativa, l’esposizione dei pezzi più significativi di quel ‘microcosmo di natura’ che, proprio lui per primo, aveva voluto rendere pubblico e proporre alla nostra curiosità.

L’altro Rinascimento ripercorre e racconta un episodio fondamentale del Rinascimento italiano, tanto importante quanto poco conosciuto perché messo in ombra, forse, dagli innumerevoli capolavori dell’architettura e dell’arte che tutto il mondo riconosce. Aldrovandi, invece, insieme a un piccolo gruppo di medici e naturalisti, ha saputo gettare le basi del nostro immaginario visivo sull’universo della natura e ha contribuito a creare il mondo moderno, aprendo la strada allo studio della storia naturale che ha poi continuato nei secoli a seguire.

Erbari secchi ed erbari acquarellati, matrici xilografiche per la stampa delle ‘cose di natura’, disegni ed esemplari di piante e animali, manoscritti, codici, strumenti in gran parte mai esposti prima e libri che costituiscono una preziosa testimonianza sulla storia delle scienze della vita (botanica, zoologia, paleontologia, veterinaria, antropologia, anatomia umana), sono ‘cuciti insieme’ in un racconto espositivo che, sala dopo sala, li fa parlare, prendendo per mano il visitatore, affascinandolo ed accompagnandolo sin dall’ingresso in un viaggio nel passato alla scoperta delle radici del presente.

Come gli altri naturalisti del Cinquecento che riprendono lo studio della storia naturale, Ulisse Aldrovandi parte dalle opere degli autori classici, quali Aristotele, Dioscoride e Plinio, considerati vette di conoscenza e difficili da superare. Dal continente americano, però, scoperto qualche decennio prima, cominciano ad arrivare esemplari, disegni e racconti di piante e animali sconosciuti nel Vecchio Mondo, raccolto intorno alle rive del Mediterraneo. Dalle Americhe giungono nuove notizie, manufatti e codici di popoli di cui persino la Bibbia ignora l’esistenza. Un vero e proprio shock culturale per l’uomo del Rinascimento; eppure, Aldrovandi fu senza dubbio l’intellettuale bolognese che più si impegnò nello studio e nella raccolta di molti materiali provenienti dal Nuovo Mondo. Appartengono alla sua collezione di manufatti americani due oggetti di grande bellezza: una testina in serpentino verde, da lui chiamata «l’idolo col cappello», e una maschera lignea rivestita di mosaico che raffigura Yacatecuhtli, il ‘Signore del Naso’, dio patrono dei mercanti aztechi. Ma l’esemplare messicano sicuramente più straordinario che campeggia nelle sale di Palazzo Poggi in tutta la sua bellezza pittorica e policroma è il Codice Cospi, un manoscritto divinatorio realizzato da pittori nahua nel XV-XVI secolo, giunto a Bologna grazie al frate domenicano Domingo de Betanzos, il quale costituisce uno dei soli tredici manoscritti mesoamericani precoloniali esistenti al mondo.

L’altro Rinascimento, dunque, non è un percorso di mostra convenzionale ma la restituzione delle tappe, anche suggestive, che scandiscono il ‘pianeta’ Aldrovandi. Un tracciato che ci appare come la ‘memoria’ di un’esposizione, come la rappresentazione di un progetto di divulgazione scientifica ‘contemporanea’ che racchiude in sé uno spettacolare tentativo di divulgazione scientifica ‘arcaico’.

Una tale configurazione museale credo sia la prima volta che accade e questa, forse, è una ragione in più per visitarla con interesse ed attenzione.

Le pagine di riferimento della mostra sono:

https://site.unibo.it/aldrovandi500/it/mostra-altro-rinascimento-ulisse-aldrovandi;
Sistema Museale di Ateneo;
Museo di Palazzo Poggi;
@museiunibo

(Notiziario n. 111, gennaio 2023, pp. 16-18)

LA MISSIONE EGIDI ED UNO SGUARDO SUL MEDITERRANEO

LA MISSIONE EGIDI ED UNO SGUARDO SUL MEDITERRANEO

Roberto Riva
(CNR – ISPC)

La collana «Europa e Mediterraneo – Storia e immagini di una comunità internazionale», edita dall’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, ha dedicato questo monografico all’omonimo convegno internazionale che si è svolto a Cagliari dal 21 al 23 marzo 2019. Nella premessa, Patrizia Spinato ha ricordato che si sarebbero indagate le metodologie archivistiche degli storici del XIX secolo e dei primi due decenni del XX, nonché i rapporti che fino a quel periodo hanno caratterizzato le civiltà del Mediterraneo. Oltre all’intervento di studiosi del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali del CNR, è stata contemplata la collaborazione con facoltà universitarie nazionali ed estere, oltre a partner come l’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea e il Ministero delle politiche agricole.

L’introduzione è a firma di Marcello Verga, ordinario di storia moderna a Firenze e, fino al marzo 2019, direttore dell’ISEM. Il docente ricorda che, per celebrare al meglio il novantesimo anniversario di questa iniziativa coordinata da Pietro Egidi è doverosa una riflessione che ricostruisca le motivazioni che hanno condotto alla ‘missione’, avvenuta nel 1928. Per questo, Verga ha esaminato la storiografia europea dall’età moderna, ma soprattutto ha evidenziato il rapporto dialettico tra i costruttori dello Stato italiano unitario e i dominatori della nostra penisola, come l’impero Austro Ungarico o i regnanti borbonici. Ultimata la Prima guerra mondiale, si sono affermati alcuni storici che hanno favorito il perfezionamento accademico degli studi iberistici, come ad esempio Vittorio Di Tocco e Federico Chabod. Verga ha terminato il suo intervento valorizzando la figura di Riccardo Gualino, un mecenate contemporaneo che ha finanziato l’iniziativa scientifica a Simancas.

Terminata la presentazione dei lavori, si entra nel cuore della discussione. La prima sezione è intitolata «Storici italiani ed archivi spagnoli nei secoli XIX e XX». Il contributo introduttivo è presentato da Paolo Broggio, docente dell’università degli Studi di Roma Tre, il quale ha analizzato le tipologie delle fonti d’archivio spagnole nella storiografia religiosa italiana dell’ultimo cinquantennio. Tramite documenti primari, sono ricostruite le devozioni, il vissuto confessionale nelle varie epoche, la dissidenza nei confronti del credo ufficiale e il controllo inquisitorio.

Pedro Carasa Soto, professore di storia contemporanea presso l’università di Valladolid, ha tracciato le interazioni tra gli storici italiani che hanno frequentato l’Archivo General de Simancas. Sono inoltre ricercate le ragioni che hanno spinto il potere economico e finanziario, tra il 1927 e il 1928, a sovvenzionare cospicuamente la missione scientifica di Egidi. L’aspetto monetario ha trovato un suo riscontro celebrativo nella ricostruzione delle gesta di Casa Savoia e principalmente nella figura di Carlo Emanuele I, il più illustre esponente sabaudo del diciassettesimo secolo. Nella parte introduttiva, lo studioso spagnolo cita un progetto d’eccellenza della comunità castigliana, che ha permesso di creare una banca dati di circa centomila schede di ricercatori frequentanti gli archivi di Simancas, della Real Chancillería di Valladolid e della Nacional di Madrid tra il 1844 e il 1999.

Silvana D’Alessio, docente di storia moderna presso l’università degli Studi di Salerno, si è soffermata sulla prima fase dell’epidemia pestilenziale che ha colpito Napoli nel 1656 e che ha provocato più di duecentomila decessi. Nel suo originale intervento, sono menzionate alcune lettere del viceré, il conte di Castrillo, e di un suo ministro, Gaspar de Sobremonte, in cui le due autorità hanno raccontato sia com’è avvenuta la prima fase della gestione emergenziale, sia le supposizioni che ricondurrebbero il morbo a un complotto contro la corona iberica.

Nel saggio di Fabrizio D’Avenia, associato presso l’Università degli Studi di Palermo, è dedicata una ‘ricognizione critica’ dell’Ordine di Malta e, più precisamente, delle monografie pubblicate nel Bel Paese nell’ultimo cinquantennio. In questo contributo si può annoverare un approfondito confronto tra la storiografia italiana, quella iberica e di altri Paesi europei. Nonostante i promettenti risultati ottenuti dai nostri studiosi, secondo D’Avenia è fondamentale incoraggiare ulteriormente la multidisciplinarietà, specialmente tra il settore umanistico e quello giuridico.

La docente palermitana Valentina Favarò ha affermato che la storiografia italiana, con la conclusione del XIX secolo, ha incentivato il proprio interesse nei confronti della monarchia spagnola. Se però inizialmente gli scienziati hanno sempre interpretato i fenomeni legati alla Corona in chiave mediterranea, col trascorrere dei decenni hanno finalmente dimostrato che dall’età moderna la storia di quella penisola non ha intrecciato solamente rapporti commerciali e istituzionali con i paesi costieri confinanti, ma ha spostato la sua influenza anche verso le aree coloniali sulla sponda occidentale dell’oceano Atlantico.

Isabella Iannuzzi, docente di storia della cultura spagnola presso l’università di Roma Lumsa, ha analizzato le ricerche che recentemente alcuni studiosi italiani hanno condotto tramite fonti primarie spagnole per studiare il funzionamento delle reti finanziarie e il mercato creditizio nei territori italiani occupati dagli iberici.

Egidio Ivetic, esperto in storia dell’Europa orientale ed autore di alcune monografie sull’area balcanica e istriana, ha presentato la figura di Giuseppe De Leva che, come l’autore stesso, è stato strutturato presso l’ateneo patavino dal 1855 al 1892. Il fulcro della sua ricerca si è svolto tuttavia presso l’Archivo general di Simancas dal quale, tra il 1855 e il 1856, è sorta l’opera monumentale Storia documentata di Carlo V, edita in cinque volumi tra il 1863 e il 1894.

Michele Rabà, dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, si è addentrato nella missione scientifica diretta da Pietro Egidi, considerandone l’ambito innovativo a livello metodologico che ha permesso la sperimentazione di criteri d’indagine che diverranno patrimonio per gli storici delle future generazioni.

Patrizia Spinato, ricercatrice dell’ISEM, ha parlato delle origini dell’ispanismo e dell’ispano-americanismo in Italia. Nonostante molti territori del nostro Paese abbiano subito la dominazione iberica, la fioritura delle discipline linguistiche e letterarie hanno faticato a essere riconosciute autonomamente dall’italianistica nei nostri atenei. È grazie alla lungimiranza di personalità come Giovanni Maria Bertini, Franco Meregalli, Giuseppe Bellini, se oggi nelle università e nei centri di ricerca questi insegnamenti rappresentano eccellenze didattiche e scientifiche.

La seconda sezione del volume è intitolata «Prospettive di ricerca. Storia e culture del Mediterraneo». Il primo intervento ospita una riflessione del modernista e contemporaneista egiziano Abdallah Abdel-Ati Al-Naggar. Nella sua dissertazione, oltre allo stato dell’arte sugli studi del Mediterraneo compiuti dagli accademici europei e da specialisti nordamericani, sono analizzati i principali focus innovativi inerenti a questa disciplina e i gruppi di studio più promettenti che si occupano della storia del mare nostrum nell’Africa settentrionale e nei territori mediorientali.

Salvatore Bono, professore emerito dell’università di Perugia e presidente onorario della SIHMED (Société internationale des Historiens de la Méditerranée), si è soffermato sulla monumentale opera di Fernand Braudel, La Méditerranée et le Monde méditerranéen e ha evidenziato come l’esponente della scuola delle Annales abbia sottolineato l’inscindibile rapporto fra i due termini, ‘Mediterraneo’ nel significato di mare, bacino, regione geografica, e ‘mondo mediterraneo’, quale ambiente geo-politico e storico-culturale delle civiltà che l’hanno abitato.

John Chircop è professore all’università di Malta ed esperto in storia economico-sociale e del colonialismo britannico nel Mediterraneo. Il suo obiettivo è lo sviluppo di programmi di ricerca basati su nuovi approcci culturali. Secondo lo studioso, gli indicatori di una società in trasformazione possono interpretare in maniera autentica il passato, comprendendone il presente e il futuro.

L’ultima sezione del libro è dedicata agli «Studi mediterranei al CNR». Il primo intervento è suggerito da Francesca Alesse, prima ricercatrice presso l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee. Il CNR, fin dagli anni ’70, ha promosso molte linee di ricerca strategiche che hanno riguardato il Mediterraneo. La storia, la letteratura, la filosofia, l’epigrafia e la filologia classica hanno vissuto una stagione promettente negli ultimi decenni del ventesimo secolo, culminata col programma Starting Grant ERC, che ha apportato una cospicua quantità di finanziamenti per le discipline umanistiche.

Alessandra Cioppi, specialista di storia medievale, succeduta a Verga nella direzione dell’ISEM, ha analizzato le caratteristiche della collana da lei diretta, «Europa e Mediterraneo». La ricercatrice ha illustrato i passaggi che hanno portato alla fondazione di questo strumento nel 2004 nonché al suo potenziamento digitale, nell’ultimo decennio, grazie al quale sono stati pubblicati ventiquattro volumi. Alla collana partecipano studiosi di tutti i saperi umanistici, provenienti da numerosi paesi europei ed anche dalle più prestigiose università americane, come Harvard, Yale e Columbia. Dopo aver indicato il link per la consultazione di questo strumento, www.torrossa.com, Cioppi ha illustrato quali sono i passaggi scientifici ed editoriali che conducono ad una pubblicazione. È stata ricordata la modalità con cui s’individuano autori promettenti, in cosa consiste il doppio referaggio anonimo, il ruolo del Consiglio Scientifico e d’Istituto. Un ringraziamento è stato rivolto al personale che si occupa dell’editing, con l’augurio che nel prossimo decennio si possa rafforzare la collaborazione tra saperi umanistici e le più avanzate discipline scientifiche.

Maria Grazia Rosaria Mele, ricercatrice della sede cagliaritana dell’ISEM, ha evidenziato quali sono stati gli studi e le collaborazioni accademiche patrocinate dall’Istituto. Una linea fondamentale di ricerca ha approfondito il rapporto tra il territorio sardo e quello aragonese, nonché i sistemi difensivi dell’isola e più in generale del Mediterraneo contro le incursioni nordafricane. Queste frontiere sono state i luoghi dove le entità statali europee si sono scontrate, ma hanno anche favorito fermenti economici e culturali molto innovativi. La collega romana Anna Maria Oliva ha invece parlato dell’evoluzione storica della sede cagliaritana, dalla sua fondazione nel novembre 1979, come Centro sui Rapporti Italo Iberici, fino alle progettualità incessantemente promosse dall’ISEM.

Questa miscellanea ha fornito una visione approfondita degli aspetti archivistici, bibliografici, storici, economici e finanziari legati alla missione diretta da Pietro Egidi. Tutti i contributi sono molto esaustivi e supportati da un’ampia e aggiornata bibliografia, oltre a essere accompagnati da un riassunto e da una nota che sintetizza il curriculum di ciascun autore. La terminologia e la lettura dei testi sono discorsive, anche se i contenuti hanno una metodologia scientifica rigorosa e appaiono rivolti a un pubblico specialistico.

(Notiziario n. 110, novembre 2022, pp. 27-29)

EMILIO CASTELAR Y EDMONDO DE AMICIS EN LA LITERATURA DE VIAJES: «RECUERDOS DE ITALIA» (1872) Y «SPAGNA» (1873)

EMILIO CASTELAR Y EDMONDO DE AMICIS EN LA LITERATURA DE VIAJES:
RECUERDOS DE ITALIA (1872) Y SPAGNA (1873)

Daniela Piccolo
(MIUR – UNED)

Un año separa la publicación de dos obras que se inscriben, en grado diferente, en la literatura de viajes del siglo XIX. Son obras de dos autores acomunados por una mentalidad liberal, abierta y deseosa de ampliar su conocimiento de la Europa de entonces y vinculados por lazos de amistad y estimación recíproca. Recuerdos de Italia (1872) y Spagna (1873), escritas respectivamente por Emilio Castelar y Edmondo de Amicis, ofrecen una visión interesante de estos dos países en los años ’70 del Siglo XIX, periodo crucial en la historia de Italia por la realización de su unidad (1871), y en la historia de España por el advenimiento de la Primera República (1872-1873). Son años turbulentos, pero prometedores de cambios importantes, con repercusiones sociales y políticas que se prolongarán en las décadas siguientes, hasta el umbral del periodo definido, a nivel europeo, Belle Époque.

Se resumen aquí unas reflexiones derivadas de un trabajo más amplio enfocado en contextualizar, analizar y comparar ambas obras, intentando situarlas, en mayor o menor medida, en la modalidad de escritura de viajes; un objetivo secundario y consiguiente a este análisis comparativo es la detección de unos tópicos sobre España e Italia que perviven, ciento cincuenta años después, en el imaginario colectivo contemporáneo.

Recuerdos de Italia, de Emilio Castelar (1872)

«Un viaje a Italia es un viaje a todos los tiempos de la historia» (del Prólogo al primer volumen): esta consideración inicial, que figura en el prólogo de Recuerdos de Italia, resume el espíritu que animó su escritura: se trata de una obra que habla de Italia por un conocimiento directo y filtrado por una gran sensibilidad, cultura, amor al arte y elegancia de estilo. Estamos frente a una obra literaria: en sus páginas las bellezas del ‘Bel Paese’ no son ilustradas con el enfoque pragmático de una guía turística, no constituyen un fin en sí mismas, sino representan el punto de partida para reflexionar sobre el pasado, el presente y el futuro, en una visión iluminada por ideales renovadores, que partiendo de Italia se elevan a soñar y promover una incipiente idea de Europa unida. Un libro de altos vuelos, un compendio del pensamiento del tribuno español que tanto amó y recordó Italia.

En la introducción a la primera parte de la obra el autor declara lo que no es Recuerdos de Italia: no es un libro de viajes, no es una guía sobre «la nación artística» (una definición suya de Italia), no presenta una estructura lineal ni cronológica que siga el viaje realizado, no quiere describir usos y costumbres, ni se adentra en interpretar la vida cotidiana del pueblo que allí vive.

Entonces surge la pregunta: ¿Qué clase de libro nos ofrece Castelar sobre Italia? Sin duda el hilo conductor de la obra es la admiración por este país, si bien los monumentos y los lugares visitados son un motivo para ampliar y universalizar sus consideraciones, que enriquecen unas páginas no meramente descriptivas. No se trata de un libro de viajes a la moda de la época, con elementos costumbristas, amenas anécdotas o pinceladas folklóricas, según el autor advierte en el prólogo: «Poco se encontrará en estas páginas de la vida corriente de las costumbres actuales de Italia», especificando que «Este libro reúne las emociones más vivas despertadas en mi ánimo por los maravillosos espectáculos de Italia». Y, poco después, añade: «No sigo, pues, orden alguno ni itinerario regular en mi libro. Pongo mis cuadros donde mejor me parece […]. Yo creo que cada capítulo forma un librito aparte».

La primera parte del libro (1872), que consta de doce capítulos, toma inspiración de los lugares visitados por Castelar en su primer viaje de 1866, en un momento difícil de su vida, mientras la segunda parte, de diez capítulos (1876), se diferencia de la precedente no solo por los destinos presentados, sino por su tono general, que aparece más relajado y optimista. En efecto, Castelar en la primera parte describe una Italia sujeta a un pasado que sí la ennoblece (el arte, el Derecho, el dominio de Roma que extendió la civilización a Europa, el Cristianismo) pero que no consigue liberarse de sus problemas contemporáneos: atraso cultural y económico, abandono de las tierras cultivadas, latifundismo, inmovilidad del comercio, y, sobre todo, el poder tiránico del Papado, que según el escritor impide el progreso y las libertades civiles.

La segunda parte, en cambio, presenta los lugares bajo una mirada distinta, encendida por la luz del Sur, del Mediterráneo, que ilumina paisajes llenos de color e infunde la esperanza en un futuro en que los pueblos latinos de Europa se eleven a ejemplo civil para la humanidad entera, como se auspicia en el Prólogo. Entre la nostalgia y el optimismo, Castelar recorre la historia de la civilización europea, receptora, con sus luces y sus sombras, de la herencia de Roma y del Cristianismo. Las playas de Capri, la pintura de Miguel Ángel en la Sixtina, Venecia y el cementerio de Pisa son algunos de los escenarios visitados por el escritor y político gaditano.

La espiritualidad que emanan los Recuerdos se expande también en unos ecos románticos, sinceros, personalísimos: la primera línea del libro contiene la palabra ‘emociones’, el posesivo ‘mis’ y el pronombre personal ‘yo’: el autor advierte que no se trata de una obra donde encontrar el dato folklórico o el cliché fácilmente reconocible, porque hay mucho más: en los Recuerdos se aprecian páginas de hondas reflexiones evocadas por los monumentos o los paisajes, así como se percibe la conmoción de la persona erudita que ha dedicado su vida a estudiar la historia del mundo clásico, y que por fin pisa el suelo de ese mundo soñado: «Ver la Ciudad Eterna fue uno de los ensueños de mi existencia, uno de los deseos de mi corazón».

Los Recuerdos transmiten mensajes de alto valor ético, además de cultural, que acercan el lector actual al mundo interior de un precursor de los ideales europeístas que serán patrimonio de la segunda mitad del Siglo XX. El viaje, e Italia, para Castelar, no son solamente recuerdos, son una materia palpitante para expresar sus pensamientos y discurrir –con evidente placer– de los argumentos y los estudios que le apasionan. Esta obra tiene también un mérito educativo, pues promoviendo los valores de un mundo clásico vivo y profundamente humano logra hablar también al hombre contemporáneo, alentándolo a perseguir ideales de buena ciudadanía en su acepción más amplia. Desde el pasado los Recuerdos alcanzan una universalidad que supera las fronteras de la literatura de viajes, para expandirse en un territorio intelectual tan vasto como heterogéneo.

Spagna, de Edmondo de Amicis (1873)

«Dormire! Era la prima volta ch’io vedeva levarsi il Sole sulla Spagna: come potevo dormire?» (del Capítulo1 – Barcellona). El libro Spagna contribuye a formar en el público italiano una imagen atractiva del país ibérico en los años ‘70 del siglo XIX, resultando interesante también por la coincidencia histórica de reinar en España un monarca italiano, Amadeo I de Saboya. En su primer libro de viajes, subestimado respecto a sus obras más célebres, De Amicis describe España con un corte periodístico moderno, ofreciendo fluidas anotaciones culturales, sociales e incluso turísticas. Esta obra tuvo una resonancia notable y, por su traducción a varios idiomas, difundió una imagen positiva de España en Europa, así como dio a conocer, si bien superficialmente, a unos grandes representantes de su cultura. España resultaba atractiva a De Amicis, como a tantos escritores románticos europeos, por ser considerada un lugar exótico, un puente fascinante entre África y Europa, un país que –según las intenciones editoriales del autor– capturaría el interés de un amplio público que deseaba conocer lugares insólitos y misteriosos, pero al mismo tiempo reconocibles.

De Amicis describe –mezclando los datos objetivos con sus opiniones– ambientes, personas, fiestas populares y obras artísticas, ofrece indicaciones prácticas para el turista, advierte y aconseja, contribuyendo a promover una nueva concepción del viaje como experiencia de descubrimiento, de entretenimiento y de placer. Su recorrido por España duró de principios de febrero a mediados de junio de 1872, unos cinco meses en los que el joven escritor-periodista-viajero envió al diario La Nazione de Florencia cuarenta y una ‘cartas’, reportajes que serían publicados en una sección del periódico llamada Lettere dalla Spagna, con cadencia semanal.

El libro consta de 13 capítulos, cada uno dedicado a una ciudad. En el orden, siguiendo el recorrido del viaje, encontramos: Barcelona, Zaragoza, Burgos, Valladolid, Madrid, (que contiene un capítulo sobre las corridas de toros y otro que describe una visita al Monasterio del Escorial), Aranjuez, Toledo, Córdoba, Sevilla, Cádiz, Málaga, Granada y Valencia, de donde zarpará para volver a Italia, lleno de gratitud y conmoción por la experiencia vivida en tierra española.

La composición de Spagna se basa en las impresiones, los recuerdos y la documentación heterogénea que el autor recogió tanto durante el viaje como en sus lecturas previas, unidos a la expresión de sus reflexiones y emociones, siendo el componente autobiográfico un elemento constante de sus obras. Como ocurre con los Recuerdos, tampoco Spagna sigue las pautas rigurosas de una guía de viajes, aunque el lector, de hecho, es guiado de la mano por un ameno viaje en tierra ibérica. Cada capítulo empieza in itinere, con la descripción de la llegada del autor a la ciudad etapa de su recorrido, acompañado por el lector que comparte las emociones y la ilusión del encuentro con lo nuevo, lo imaginado, lo soñado. Castelar, al contrario, empieza sus capítulos estando ya in situ, sin el preámbulo de la llegada, sin contarnos de los compañeros de viaje o de las pequeñas incidencias, porque sus objetivos son distintos. En efecto, De Amicis se detiene en la descripción de los desplazamientos porque le permiten enriquecer el capítulo describiendo los encuentros, las incomodidades, las expectativas, y, a menudo, las bellezas femeninas locales, fuente inagotable de curiosidad.

De Amicis nos ofrece una visión afable y positiva del país ibérico, es decir, no se detiene en analizar los problemas sociales, la inestabilidad política, las dificultades económicas que habrían resultado evidentes a los ojos de un viajero atento. En efecto, opta por reforzar los mitos de origen romántico sobre España, evitando presentar una realidad objetiva y confirmando los tópicos más corrientes, para permitir que el lector reconozca lo que comúnmente ya sabía sin haber viajado nunca. Entonces abundan los tópicos de las mujeres españolas apasionadas y de ojos hechiceros, del pueblo orgulloso, de la cortesía de las personas, de la pasión masiva por las corridas de toros, de la fascinante cultura árabe… lugares comunes en que el lector encontraba una confirmación de sus conocimientos.

Finalidad, estilo y temas tratados en Recuerdos de Italia y Spagna: unos ejemplos

Recuerdos de Italia y Spagna tienen en común el arranque, es decir, la experiencia de un viaje, pero ya a partir de su génesis hay discrepancias, así como en su finalidad y en el estilo de escritura. También es diferente el contexto de sus viajes, pues para De Amicis la experiencia en España tenía una motivación profesional, aunque en el libro no está declarada: a la vuelta, el escritor tenía planeada la redacción de un libro basado en los artículos enviados a La Nazione durante el viaje, de ahí que el libro se editase rápidamente, a los pocos meses de su regreso a Italia. Muy distinta es la motivación del viaje de Castelar a Italia, pues la visita casi secretamente, en fuga de España por una condena a muerte por subversión. Viajar ilusionado por la curiosidad y motivado por fines profesionales, amparado por cartas de recomendación y siendo recibido por cónsules o personajes ilustres, como en el caso del periodista italiano, era una experiencia que nada tenía en común con la modalidad de viaje de Castelar, perseguido por la policía pontificia que lo buscaba para entregarlo a la justicia española.

Otra divergencia reside en la voluntad de abordar el tema político: diversamente de Castelar, que desea comunicar sus reflexiones éticas y sobre todo políticas inspirándose en el patrimonio artístico italiano, De Amicis afronta la situación política de España someramente, sin arriesgarse en transmitir sus ideas personales: «No entiendo de política», responde secamente a un interlocutor en Barcelona, y ahí termina el discurso. El autor sugiere incluso a sus lectores y potenciales viajeros que respondan como él lo hizo, para evitarse problemas en un periodo delicado.

En general, y no solo en el aspecto político o cultural, la profundidad de pensamiento de los Recuerdos es mayor respecto a las ligeras páginas de Spagna, siendo diferente el público destinatario: el lector italiano de la clase media para De Amicis, y un lector más culto e inspirado por ideales progresistas para Castelar.

La literatura de viajes es una modalidad literaria universal, que comprende obras de todas las épocas y latitudes, por ser el viaje un elemento constitutivo del vivir humano. Pero no todo texto que contenga el viaje como argumento central y que describa unos lugares puede formar parte de esta grande, pero selectiva familia. En el trabajo de investigación que ha inspirado estas páginas se afronta la cuestión de la adscripción a la narrativa de viajes de estas dos obras, así como se exponen sus diferencias, sin duda mayoritarias respecto a los puntos de contacto.

Como se ha visto en los ejemplos precedentes, Spagna y los Recuerdos representan dos modos de escribir literatura de viajes, estando la obra de Castelar más emparentada con la literatura autobiográfica y otras modalidades de escritura. Se ha subrayado que poco tienen en común en cuanto a su génesis, finalidad, estilo y actitud de sus autores en calidad de viajeros. No sorprende, por tanto, que las obras difieran también respecto a la clasificación genérica: Recuerdos de Italia es atribuible solo parcialmente a la literatura de viajes, pues presenta una riqueza de temas y un estilo de escritura tan particular que impiden una clasificación estricta. Diversamente, Spagna tiene varios puntos a favor de una segura adscripción a la literatura de viajes.

Los Recuerdos y Spagna son fruto de la sensibilidad de dos autores que se conocieron, se trataron en Madrid y posteriormente mantuvieron una correspondencia epistolar. Según cuenta De Amicis en un ameno boceto titulado «Emilio Castelar», que aparece en su libro Pagine sparse (1874), la relación entre ellos se puede definir de comunión de espíritus, y su estimación mutua es confirmada por varias anécdotas amenas, que resaltan la imagen de un Castelar sociable, extrovertido y con un gran sentido del humor. También Spagna ofrece dos sabrosas páginas dedicadas al tribuno español, llenas de sincera admiración. En la primavera de 1872 el periodista italiano residió en Madrid para informar a La Nazione sobre el clima político que se respiraba bajo el reinado de Amadeo I. En calidad de representante de la prensa nacional italiana, De Amicis pudo entrar en contacto con personajes políticos y académicos de primer orden, entre los cuales Castelar figura como merecedor de un capítulo particular en el citado libro. Como señal de esta relación de confianza, el tribuno español no solo lo invitó a asistir a algunos de sus discursos en las Cortes, en un ámbito oficial, sino se frecuentaron en momentos informales, de paseo por la Castellana, o incluso lo recibió en su propia casa. Por su parte, también Castelar demostró estima hacia el joven reportero italiano, como muestra una carta que le escribió desde Florencia en 1874, donde tras una afectuosa introducción en la que rememoraba las horas transcurridas juntos en Madrid, elogia el libro Spagna, afirmando haberlo utilizado él mismo como guía turística para visitar la ciudad de Granada.

A pesar de que Castelar y De Amicis se diferencian en estilo de escritura y por cómo presentan las vicisitudes de sus viajes, comparten una condición común que los acerca: la voluntad y el placer de describir, narrar y revivir unas experiencias que les permitieron sumergirse en dos grandes culturas y reflexionar, con seriedad o ironía, sobre temas trascendentes o triviales, surgidos del encuentro con lo diferente, ma non troppo, y del contacto entre dos mundos percibidos como exóticos pero afines, marcados por una raíz cristiana y mediterránea común.

(Notiziario n. 110, novembre 2022, pp. 22-26)

EL VIAJE POÉTICO DE HÉCTOR HERNÁNDEZ MONTECINOS

EL VIAJE POÉTICO DE HÉCTOR HERNÁNDEZ MONTECINOS

Patrizia Spinato B.
(CNR – ISEM – Università di Milano)

Héctor Hernández Montecinos (1979) es considerado una de las voces poéticas y críticas chilenas –y no solamente– más importantes de su generación. Su trabajo se ha cruzado con música, fotografía, instalaciones y diversas realizaciones audiovisuales. Ha dirigido proyectos editoriales, organiza performances y acciones de arte, trabaja collages en papel, ilustraciones, guiones y obras de teatro en pequeño formato, lleva el blog http://acheache.blogspot.com/. En toda su trayectoria, su vis crítica genera, en la vertiente artística, textos perturbadores y deslumbrantes, que se vuelven reescrituras, replanteamiento de conceptos.

Ya desde el primer poemario, No! (2001), destacan la fuerza de las palabras y la violencia de las imágenes. A pesar de la cotidianeidad del telón de fondo, la mirada del poeta percibe la injusta profanación de lugares, a mano de objetos antropomorfizados. El recorrido ciudadano está marcado por fuerzas negativas: la barbería es un lugar asfáltico, las ventanas son ojos, la tijera juzga y la calle, con mayúscula, tiene «piernas grisáceas / abiertas / Lista para ser ultrajada / por la alegría de niños sin sentido». Igualmente, «La noche trepa» y provoca eclipses. Sin embargo, para emprender el viaje hacia el conocimiento y la verdad, surge impetuosa la necesidad de matar a los padres, con sus certezas graníticas. Afirma el autor en una entrevista: «Una poesía que considerábamos literatosa, descomprometida, lírica y de un intimismo que nos resultaba paradójico pues eran poetas que venían de haber crecido en la dictadura» (http://letras.mysite.com/hher071014.html). Los versos toman la forma de un manifiesto, que indica la nueva dirección para tomar dentro del parque de los autores:

Nos divertimos con odio de las máquinas que escriben papel
Buscamos espejos para horrorizarnos
y están escritos:
No queremos permanencia

Y, un poco más adelante, se llega a la última estación, como si se tratara de una via crucis:

La fría casa de las musas muertas
para este infierno sólo tenemos velas
No es necesario el ornamento para el arte alado
Las calles anémonas sedientas de su bilis tierna
nos exige resistir las páginas en blanco
por imágenes móviles que gimen de alegría
de hermanos dióscuros amantes.

La censura institucional no es el fin para nuestro viaje.

Efectivamente, Hernández Montecinos consigue pronto ser incluido en el pequeño sector de «los novísimos», entre los cuales se encontraban Paula Ilabaca, Diego Ramírez, Pablo Paredes y Felipe Ruiz. Neologismos, onomatopeyas, asonancias se entrecruzan en versos fuertes, llamativos, hasta desembocar en el poema visual titulado «La manicomia divina»: «La manicomia es una larga y angosta faja de angustia».

El gusto por los recursos estilísticos y retóricos se mantiene a lo largo de su producción, como se lee, por ejemplo, en «El canto de las calaveras», donde anáforas, sinestesias («Una lágrima de un muerto más otra / de un pájaro: así nacen los ríos en el cielo […] llenos de aire») y aliteraciones («Un poeta vende violines por vanidad»; «palomas y palíndromas») restituyen un mundo lleno de flores y libros, violines y cactus, en una noche de estrellas negras y borrachos del cabaret. Lo que podemos considerar un primer manifiesto, «Engendro», trata precisamente del sentido y de la dinámica de la creación literaria:


Una reescritura es una incógnita, una X, una máquina de suspensión; no sentido sino sentido, no corrección sino imaginación: delirio

palabras
videncias
sueños
imágenes
pero todos creen que existen […].

Todo el día hay palabras
algunas tienen ventanas
otras alfombras y luz
[…] para tapar el significado con el significante
¿entendieron?
yo tampoco
no hay nada nuevo en la galaxia […].

Si algo sobra en este mundo
son poetas,
suman más que los policías y los delincuentes juntos,
pero nunca están de moda,
a veces sí, unos cuantos locos
unos cuantos suicidas,
esos que escriben al azar como yo.

Sabías que algunos de los poetas muertos
oyen la lluvia sobre sus cabezas
entre el infierno y el pavimento;
esta noche creo que la reescritura
es acostarse con un cadáver pícaro
y engendrar un monstruo,
pasar de la lengua materna a la lengua mutante
ni muy vivo, ni muy muerto
mejor sentado en una cama, en un coche o en una banqueta.

Da un poco de escalofrío la reproducción,
el hecho de que se lean
con su no sé qué.

Muerte, vida, poesía, amor, tiempo constituyen preocupaciones constantes para el poeta, que construye incesantemente un pasado para dar vuelta a su historia, pero, sobre todo, construye un futuro para olvidar la tristeza presente. La literatura es la experiencia de lo común, del encuentro, donde el tiempo es distinto, es una ilusión. Lenguaje, pensamiento y memoria representan el triple espacio de lo contemporáneo, que hay que compartir. En su última trilogía, OIIII (2020), el mismo recorrido geográfico vuelve a proponer los temas que desde siempre acechan y atormentan al poeta chileno:

[…] la literatura
no es otra cosa que el momento
en que todo tiene una segunda posibilidad.
Nada se acaba en el papel
cuando es hora de decir adiós.

(Notiziario n. 110, novembre 2022, pp. 19-21)

MÀRIUS TORRES: PARAULES DE LA NIT

MÀRIUS TORRES: PARAULES DE LA NIT

Santiago Montobbio
(Asociación Colegial de Escritores de Cataluña, SGAE)

Me desvelo en la alta noche y me encuentro con el poema de Màrius Torres titulado «Paraules de la nit», precisamente, y que empieza así: «Home, sigues prudent. Amb la teva mesura / ni et pots mesurar tu, ni estrènyer l’Univers» (y, si quiero ser más completo, quizá puedo citar también los dos siguientes versos: «Fusta en la meva mar, ombra en el meu esmerç, / limita’t a la llei de la teva natura»). Había empezado a leer sus poemas antes de acostarme, tras un día de cansancio, y me había quedado en éste, quizá porque percibí que exigía un esfuerzo de atención que la fatiga empezaba a no permitirme. De atención y de disfrute en esa atención. Y aquí me quedé. Y, pese al cansancio, o tal vez precisamente a causa de él, me he desvelado, pues es a veces el mucho cansancio –misterios del cuerpo– el que hace que nos cueste dormir o nos despertemos a media noche. Y en el nuevo cansancio del sueño quebrado me encuentro con este poema, «Paraules de la nit». Y lo leo, y me aventuro también en los siguientes. Y percibo y sé que estoy ante la poesía, que me encuentro en y con la poesía, en sus misteriosas tierras. Lo noto y sé de pronto, al momento, al adentrarme en estos poemas y leer uno tras otro desvelado y con cansancio, en medio de la noche. Ayuda quizá el silencio del campo, tal vez también acaso este estado de sopor o semiconsciencia queda del desvelo y el poco sueño, y que hace paradójicamente quizás que nos lleguen más adentro o de manera más fina las cosas. Y la poesía. Sé que estoy ante un poeta, que es un poeta el que hace estos poemas, y que estos poemas son poesía. Los poetas, la noche, el silencio: así «El combat dels poetes» (24), «En el silencio obscur d’unes parpelles closes» (25), «La nit dels vagabunds» (26), «Ultima Rosa» (27). El segundo que he citado y lleva el n. 25 se abre con esta cita de Baudelaire: «La musique souvint me prend comme une mer!». Y hay música en estos poemas, son música, es la música la que en ellos nos conduce y hace que en el misterio nos adentremos, en sus tierras frescas, hondas. Así lo siento, percibo y noto. Que estoy ante la poesía, la poesía de un poeta sutil y refinado, melancólico, y que en los poemas da música a su alma, y es por ello una música interior. Avanzamos por ella, por sus versos, de sutil concepción: sutil, quiero decir, en sus conceptos, y la música que los hila y los desgrana. Música sutil, y de personal acento, de timbre único, como ha de ser siempre en un poeta verdadero. Y es curioso que se encuentre ello y así se perciba dentro de moldes o formas conocidos, de conceptos e ideas muy propios del simbolismo, adscribibles a una corriente, no cabe duda, y que me hace pensar que también dentro de moldes o formas o corrientes consabidas puede darse una voz personal, una voz de timbre de ella sólo, de acento que lo distinga. Y así la última rosa o l’antic jardí, el antiguo jardín («M’he despertar tot sol en un antic jardí / que no sé si es la meva presó o el meu imperi»: 29), la noche, Dios, la Eternidad, el pasado y el futuro, el tiempo, Horacio, resultan nuevos, por ser dichos con verdad, con una verdad propia e íntima, desde el adentro. A veces he recordado el membrete de Oliverio Girondo que creo muy cierto («La poesía siempre es lo otro, aquello que todos ignoran hasta que lo descubre un verdadero poeta»), y pienso que puede también darse, como pasa en Màrius Torres, dentro de elementos conocidos, sin una aparente originalidad, manejando palabras y dentro aparentemente de los límites de un estilo consabido. Pero que dentro de ellos se dé una voz y el hallazgo que comporta, el descubrimiento, y nos haga sentir nuevos el mundo y las cosas que nombra. Y así pasa con estos poemas de Màrius Torres, así lo siento. Leo sólo algunos, con esta sensación de misterio penetrado que da el verdadero poema, y me puede otra vez el cansancio.

Me he encontrado con estos poemas solo y en la noche. Como si de ellos y el poeta que los ha hecho no supiera nada. Ayer y anteayer leí una recopilación de páginas íntimas, de ensayo y reflexivas del poeta, y que han tardado tanto en ver la luz, y pensé que luego releería los poemas, y por esto los traía conmigo. Por cierto, recuerdo ahora que Torres predica en ellas una observación sobre un escritor francés, observación que es la afirmación de una sorpresa, y ésta es cómo se puede escribir de modo tan nuevo en francés. Observación sutil y cierta, en un idioma tan trabajado y casi encorsetado, reducido ya casi a fórmulas en buena parte tras tantos grandes escritores que lo han pulido y cincelado, y que Torres formula como sorpresa. Y la recuerdo porque es semejante a la que acabo de expresar respecto a sus poemas y lo que me he encontrado con ellos, en ellos, y es esta verdad personal e íntima, este acento único dentro de los moldes de una corriente y un estilo por tantos cultivado, y que para muchos de ellos es y resultan exactamente eso, sólo moldes. Pero en ellos, dentro de ellos, en los poemas de Màrius Torres vibra la vida de modo misterioso y secreto, y por esto es un poeta de verdad, un poeta verdadero, y sus poemas son poesía. Poemas, como digo, ante los que me he encontrado solo. El libro está fechado en 1990, y he leído sus poemas algunas veces, pero hacía mucho que no los leía. Ahora quería hacerlo tras leer sus páginas íntimas y reflexivas. Me han llevado otra vez a ellos, pero siento que ante los poemas estoy solo, y que la poesía es así, y se da sola en su verdad. Que no necesita literatura íntima ni reflexiva que la glose o complemente. Que no hay cartas, o ensayos, o estudios o análisis críticos que la aclaren ni le den nada. Quizá ni siquiera la acompañan. Porque la poesía se da sola. Es flor sola que se abre en la noche. Fruta, fruta que nada más precisa. Lo siento así al encontrarme solo, desvelado y en la noche silenciosa del campo con estos poemas en que me adentro, y mientras siento su música. Y me envuelve y me llega, se acerca al alma. Estoy solo ante los poemas y pienso que quizá ante su arte es una inutilidad la literatura íntima, reflexiva o de análisis con que lo acompañan muchos escritores y a mí me gusta leer. Me gusta, pero no hace falta. El arte es solo, y se basta. No necesita páginas complementarias. Claro que quizá leemos estas páginas porque son las de quien ha hecho un arte que amamos, y para recordar ese arte y bordearlo por sus orillas, digamos, y quizá también para que nos devuelva a él, como ha sido ahora en mi caso con Màrius Torres, pues tras la lectura de sus páginas íntimas y de ensayo me he encontrado de nuevo con sus poemas. Y he sentido que me encontraba solo ante ellos, y también que estaba bien que fuera así. Que debía, debería ser siempre así. Y no hay páginas íntimas ni explicativas o diseccionadoras que ayuden o acompañen, o sean necesarias. La poesía es sola, y sola se da en la noche. Se abre, respira, te llega. Lo sé, de noche, en soledad y silencio, ante estos poemas. Poemas ante los que estoy solo y me siento solo, sé que así debo sentirme. Que así se está ante la poesía y el poema. Y por esto recuerdo la invitación de José Luis y la pienso muy acertada, y que he hecho bien en aceptarla. Y recuerdo también las razones que me he dado, el pan del poema del que he hablado, poema o pan, poesía y pan que son la vida y ante los que se está solo. Y por esto puede uno llegar en soledad a un poema, nada más de él conocer, ni del poeta, y adentrarse en sus tierras, traducir como lluvia la impresión que en el corazón le suscita. Así lo pide José Luis, o lo permite, y está muy bien. Y es muy justo y muy verdadero. Quiero decir que corresponde a una honda verdad, y que está en la poesía, o que va con ella, y es que ante un verdadero poema siempre estamos solos. Estás tú y el poema. Nada más. El arte es así, se da así. Si el arte importa, y es verdadero, creación honda. Lo sé y acabo de experimentarlo y de sentirlo ante los poemas de Màrius Torres en medio de la noche. Poemas ante los que estoy solo, como ante todo poema verdadero que lo sea. Poema que es pan, decía esta tarde, antes de encontrarme en la noche con éste de Torres, y si llevo el recuerdo más lejos puedo pensar que en palabras de mi juventud había hablado del pan del adentro, o de un pan que crece muy adentro, y también de pan muy blanco, y creo incluso que también, en algún caso, del pan muy blanco del adentro. Y pienso y sé ahora que es o puede ser el pan del poema. Poema y pan, de los que decía ayer, que en mis palabras unía, y que ahora, esta noche sé solos, poema y pan de soledad y por la soledad también unidos. Poesía y pan. Poema. Un poema ante el que siempre estás solo y has de tener el corazón dispuesto, el adentro alerta y despierto para conjugarse con el pan también de adentro que lo ha hecho, que el corazón ha amasado. En soledad y silencio. Y así, solo, puedo por ello recibir un poema, sentirlo, como ayer se me pedía que hiciera con uno de este panadero-poeta, y su impresión traducir como lluvia. Lluvia es también el poema, además de pan, lluvia en la noche y que dentro nos llega. Lluvia en medio del silencio y la soledad, que la tierra del corazón fermenta. Esto siento esta noche ante unos olvidados y reencontrados poemas. Esto sé. Me sé solo ante el poema, y que un poema puede ser y estar solo ante mí. Poesía es soledad y es verdad. Es noche, es lluvia, es viento. Y el silencio en que se da.

(Notiziario n. 109, settembre 2022, pp. 19-22)

Un viaje en la poesía de Jorge Enrique Adoum

UN VIAJE EN LA POESÍA DE JORGE ENRIQUE ADOUM

Patrizia Spinato B.
(CNR – ISEM – Università degli Studi di Milano)


El 4 de julio de 2021 se reunió en la Universidad de Alicante la comisión encargada de valorar la tesis doctoral de Miguel Ángel Gómez Soriano, El viaje épico-lírico en “Los cuadernos de la tierra” de Jorge Enrique Adoum. Génesis y caracterización de una poesía histórica y de la que formé parte, como vocal, junto a Selena Millares, secretaria, y José Carlos Rovira, presidente.

Lo primero que tengo que reconocer es que de la defensa de esta tesis aprendí mucho, gracias al trabajo deslumbrante de Gómez Soriano y de la excelencia de sus directoras, Carmen Alemany Bay y Beatriz Aracil Varón, quienes escogieron un tema tan oportuno y novedoso, y lo desarrollaron de una forma seria, lúcida y pormenorizada: no sólo Adoum, sino también las letras ecuatorianas, merecían esta profundización, además de una épica en que fundarse.

Miguel Ángel Gómez Soriano, para completar el presente trabajo, aprovechó de una ayuda para la contratación de personal investigador en formación de carácter predoctoral de la Conselleria d’Educació, Investigació, Cultura i Esport de la Generalitat Valenciana y el Fondo Social Europeo. Gracias a ésta, durante tres meses colaboró con nuestro Centro de Milán, siguiendo adelante con su investigación dentro del programa de Doctorado en Filosofía y Letras mientras que se involucraba en nuestras iniciativas editoriales y se acercaba a la tradición bibliográfica italiana en torno a cuestiones como la construcción de la identidad cultural y las relaciones entre la literatura y el discurso historiográfico o político en el ámbito iberoamericano.

En su tesis, Gómez Soriano analiza Los cuadernos de la tierra de Jorge Enrique Adoum (Ambato, 1926 – 2009) como ejemplo lamentablemente poco estudiado de la reescritura de la historia en la poesía latinoamericana de mediados del siglo XX, en un movimiento compartido por autores de la importancia de Pablo Neruda (de quien fue secretario en su estancia chilena), Ernesto Cardenal o José Emilio Pacheco. El estudio se mueve entre la recuperación de los discursos de la crónica de Indias y el análisis retórico de los recursos de esta poesía ubicada entre lo lírico y lo épico, para tratar de comprender las particularidades de esta obra. El estudioso ha demostrado tanto su capacidad de análisis de los textos, como el don de síntesis que le ha permitido llegar a conclusiones significativas. El trabajo está bien planteado y estructurado, y desarrolla perspectivas críticas complementarias a las existentes. La metodología de análisis es adecuada a los planteamientos iniciales y a los objetivos que se ha propuesto al comienzo de su trabajo de investigación, marcando y describiendo detenida y acertadamente la evolución de la poiesis adouniana.

Gómez Soriano ofrece un estudio original de los poemarios agrupados, abordando las diferentes tácticas discursivas, retóricas y temáticas para esclarecer las relaciones entre poesía e historia dentro de un general regreso a la tradición épica americanista. Ya desde el índice se aprecia el detallado recorrido que se lleva a cabo a lo largo de las quinientas páginas que componen el trabajo: la misma estructura denuncia la madurez crítica del investigador, que ha asimilado y utilizado apropiadamente todos los recursos críticos necesarios a un correcto y original análisis de los poemarios de Adoum.

En la primera parte, hace hincapié en la trayectoria poética del autor en el contexto nacional ecuatoriano y latinoamericano en general, entre poesía impura y comunicante. A lo largo de tres capítulos, analiza las diferentes etapas de la trayectoria poética de Jorge Enrique Adoum, las generaciones poéticas ecuatorianas de la primera mitad del siglo pasado y la revisión de la historia en la poesía latinoamericana del medio siglo.

En la segunda parte Gómez Soriano trata de Los cuadernos como poesía histórica nacional, sus paratextos e hipotextos, su forma y lenguaje: véase, por ejemplo, el sexto capítulo, dedicado al análisis de los textos, desde “Los orígenes” hasta “Tras la pólvora, Manuela”, en que considera el trasfondo histórico y el desarrollo poético de figuras y episodios nacionales salientes. Como subraya el autor, la subjetividad y parcialidad evidencian un mensaje al mismo tiempo acusador y rebelde, que vertebra un yo poético colectivo y nacional en el que Adoum busca las raíces de la identidad y el impulso para la utopía. En este apartado asistimos a un análisis tanto de forma como de contenido impecable, aprovechando no sólo las referencias ya aceptadas y codificadas, sino también recursos bibliográficos actualizados e igualmente eminentes. Por ejemplo, al definir la voz poética, recurre a los planteamientos de Vicente Cervera Salinas en su estudio sobre la poesía de Borges de 1992.

En la escasez de investigaciones que se han hecho hasta ahora –tanto es así que Adoum casi no aparece en las principales historias de las literaturas hispanoamericanas, como también se subraya–, Gómez Soriano desarrolla un recorrido novedoso al identificar esta serie de poemarios como ejemplo representativo de las relaciones entre la historia y la poesía hispanoamericana de mediados del siglo XX. El candidato demuestra tener una cultura sólida, un método serio y una preparación académica fuerte, que le permiten desarrollar una indagación pertinente. De mucho interés resultan tanto el enfoque, en su peculiar distanciamiento crítico y geográfico, como los resultados inéditos expuestos al final de la tesis.

El estudio presentado ha resultado por lo tanto apto para la mención de doctor internacional por la Universidad de Alicante, obteniendo máxima calificación de sobresaliente cum laude. Gracias al trabajo minucioso y coherente de Miguel Ángel Gómez Soriano, la lírica adouniana no sólo ha sido recuperada del olvido, sino ha evidenciado variedades y matices temáticos y formales que no presentíamos todavía: esta labor crítica representa por lo tanto un hito valioso y de importancia para la valoración de la literatura adouniana y del espacio cultural ecuatoriano.

(Notiziario n. 108, luglio 2022, pp. 20-21)

NUEVA BIOGRAFÍA DE RUBÉN DARÍO

NUEVA BIOGRAFÍA DE RUBÉN DARÍO

José Carlos González Boixo
(Profesor emérito de la Universidad de León)

A finales del año 2021 apareció una nueva biografía de una de las figuras señeras de la literatura universal, Rubén Darío. Se trata de un extenso libro de 573 páginas, de título sencillo y certero, Rubén Darío. La vida errante, obra de Rocío Oviedo Pérez de Tudela y Julio Vélez-Sainz, con la colaboración de Cristina Bravo Rozas, todos ellos profesores de la Universidad Complutense de Madrid, publicado en Madrid por la editorial Cátedra en una relativamente reciente colección «Biografías», dedicada a grandes autores de la literatura universal. Dado el carácter colectivo del trabajo atribuiré sus notables méritos a sus autores en esa proporción que figura en los créditos de la edición, ya que no se pone de manifiesto indicación alguna de cómo han sido sus contribuciones individuales: una actitud que no deja de ser llamativa y loable, porque evidencia el propósito de llevar a cabo un complejo trabajo que, por sus implicaciones, resulta muy difícil de realizar de forma individual, sacrificando el casi inevitable narcisismo de la autoría.

¿Un nuevo libro sobre Darío? Tratándose de uno de los escritores universales que cuenta con una bibliografía más extensa parece una osadía. Se entiende que escribir una monografía sobre algún aspecto concreto de su obra literaria siempre resultará factible, pero afrontar una obra global, máxime sobre su biografía, es tarea que acompleja. ¿Qué añadir o rectificar a las múltiples biografías ya existentes, desde las escritas por el propio Darío, los importantes testimonios aportados por quienes le conocieron o los documentados libros de sus biógrafos más respetados? Pues sí, entre otras aportaciones, los autores de este libro tenían una llave que, no por desconocida, no había sido, sin embargo, suficientemente utilizada: el inmenso Archivo Rubén Darío, radicado en la Universidad Complutense, que ha permitido esclarecer en este libro no pocos asuntos. La extraña obsesión de Darío por conservar todo tipo de papeles (hasta postales, facturas, notas de nimias invitaciones) nos ha permitido conocer un extensísimo legado, hoy digitalizado y de acceso público en buena parte, conservado en el famoso baúl por Francisca Sánchez, en cuya cesión al Estado español en los años cincuenta fue decisiva la intervención de Oliver Belmás, catedrático de la Universidad Complutense, entidad que quedó encargada de su salvaguarda. Es así como se inicia una vinculación decisiva entre la figura de Rubén Darío y la Universidad Complutense, de manera que el poeta nicaragüense se erige en una especie de patrono de un naciente Departamento de Literatura Hispanoamericana, germen del desarrollo en otras universidades españolas de unos estudios apenas desarrollados hasta ese momento y que hoy, setenta años más tarde, han fructificado y se han consolidado con éxito. Catedráticos de la Universidad Complutense, primero, Francisco Sánchez Castañer, con la publicación de algunos libros sobre Darío en los que ya utilizaba el Archivo y fundador en 1972 de la fundamental revista Anales de Literatura Hispanoamericana (este año acaba de publicar su número 50), que siempre ha contado con una sección fija sobre el Archivo y la figura de Rubén Darío, la constante dedicación de Luis Sáinz de Medrano al Archivo, conjuntamente con sus publicaciones sobre Darío y, por último, Rocío Oviedo Pérez de Tudela, con su gran trabajo de la conversión del Archivo en accesible para los investigadores, mediante la dirección de un equipo de digitalización que ha durado años, y sus libros y artículos al respecto, todos ellos han contribuido a mantener viva la investigación dariana, cuyo colofón es este libro.

Nos encontramos, pues, ante un libro definitivo para trazar la biografía de Darío, que solo ha sido posible gracias a un conocimiento exhaustivo de la bibliografía existente y la consulta del Archivo Rubén Darío y otros de menor entidad: dualidad tan magnífica que el denodado esfuerzo está a la vista del lector en la minuciosa anotación crítica y en una bibliografía final utilizada de proporciones bíblicas. «Basada en una exhaustiva documentación, y evitando los excesos novelescos y la hagiografía», reza la contraportada del libro. Lo primero ya lo he señalado y es su seña de identidad y, añadiré, con una gran generosidad por parte de los autores, que tienen la honradez –no tan frecuente como debería ser– de citar las contribuciones de otros críticos (y me congratulo especialmente al observar la frecuencia y relevancia con la que son citados autores del ámbito universitario español, un buen indicio del excelente nivel investigador de nuestras universidades en este ámbito). Lo segundo es también importante, porque indica la orientación que se quiere dar a la biografía: es cierto que la vida de Rubén Darío tiene episodios novelescos y no es fácil evitar la tentación hagiográfica a la que nos inclina su enormidad literaria. Recuerdo con placer la lectura de la biografía de Edelberto Torres, bien documentada, pero con algunos excesos en ambos sentidos. Aquí se nos ofrece otra perspectiva, ya anunciada en el título, La vida errante, frente al novelesco de La dramática vida de Edelberto. Y, sobre todo, es una biografía «literaria», un recorrido por sus momentos creativos que, de hecho, configuran el reparto de los distintos capítulos. No es que no se mencionen episodios que marcaron la vida de Darío, aunque sean más propios del cotilleo y no guarden relación con su creación literaria, sino que hay una evidente contención en el relato de anécdotas que pueden ser reiterativas y nada relevantes para lo que sí constituye la médula biográfica de este libro: el relato de cómo se fue haciendo esa inmensa obra literaria y periodística. Tampoco pensemos que se trata de un recurso para ocultar las partes oscuras de la vida de Darío: el lector tiene conciencia de que, ciertamente, su figura es retratada a la manera jánica, no hay duda de que estamos en presencia de un genio del arte, pero, al mismo tiempo, Darío es un ser egoísta que dista mucho de ser un padre y un marido ejemplar, que arrastró problemas de alcoholismo desde muy temprano. En este libro, pues, se ofrece en perfecta conjunción la que podría considerarse doble vida de Darío: la del escritor, consciente muy pronto de su relevancia poética, y la «errante» vida de quien, con los criterios convencionales de la sociedad, se dejó llevar por demasiados vicios placenteros. De hecho, en esta biografía, no sé hasta qué punto de manera consciente, existe una complacencia al enumerar sus aportaciones literarias, el premio y galardón del genio, y una recriminación a quien desperdició una vida que terminó demasiado pronto, como un lamento por aquellas obras que pudo haber escrito y quedaron sin existir.

Este libro ha de tener múltiples tipos de lectores. Será básico para el alumno universitario, de modo especial para el que se encuentre al final de sus estudios, en los ámbitos del máster y el doctorado, ya que encontrará aquí una información muy detallada. Aquí verá referencias a los centenares de personas con las que se relacionó Darío, lo mismo que los detalles concretos de los casi incontables escritos que Darío publicó, más allá de sus libros. La valoración que se hace de cada escrito, en su contextualización cronológica, y los análisis minuciosos de sus obras más significativas adquieren su sentido pleno al conocer el desarrollo ideológico y artístico de Rubén Darío. Este cúmulo de aportes –visión crítica y datos personales– le ha de ser igualmente útil al especialista dariano, tanto por su valor enciclopédico como por la relevancia de los testimonios aportados del Archivo Rubén Darío. El que sea un libro válido para estudiosos y especialistas en nada le resta interés para el lector común que ha leído con admiración su poesía y quiere tener una mayor información. Es cierto que hay biografías más sencillas, pero, lógicamente, con un aporte mucho menor de información. Incluso para esos lectores ocasionales de Darío me parece un libro muy recomendable.

Destacaré algunos puntos concretos que me han resultado más interesantes, muy limitados por la comedida extensión de esta reseña y dejando constancia de que son una mínima mención entre el piélago de esclarecedoras cuestiones estudiadas en el libro. Me parece realmente importante la aportación documental, basada en el Archivo Rubén Darío, sobre las relaciones de Darío con algunos escritores. Así, por ejemplo, la que mantuvo con Lugones (pp. 204-207), con Enrique Gómez Carrillo (pp. 300-309), de mutua admiración al enfrentamiento del guatemalteco, necesitado de un reconocimiento que nadie le negaba al nicaragüense (43 cartas), la intensa amistad que mantuvo con Valle Inclán (descrita en muchas de las páginas del libro), el respeto que manifiesta a Unamuno, y no quiero dejar de mencionar la famosa anécdota de la frase unamuniana de que a Rubén se le veían las plumas del indio debajo del sombrero, frase difícil de interpretar por falta de contexto, pero que, desde luego, también tenía un tono mordaz. Que a Rubén Darío le molestó es evidente, por la carta que le envía a Unamuno y en la que le alaba como intelectual y poeta, pero también pide reconocimiento para él, de manera altiva: «Y en cuanto a lo que a mí respecta una consagración de vida como la mía merece alguna estimación» (p. 288), testimonio, una vez más procedente del Archivo. Por cierto, el desencuentro duró muy poco, tal como podemos apreciar por la correspondencia entre ambos en fechas inmediatamente posteriores, también conservadas en el Archivo.

Otro de los temas tratados también me parece importante. Se trata del esoterismo: desde muy pronto le interesó a Darío el mundo de las ciencias ocultas, tema relevante en la época modernista. A su llegada a Guatemala en 1890 conoce a Jorge Castro, que «estaba obsesionado con las doctrinas ocultistas y el teosofismo de Mme. Blasvatsky» (p. 137), y que fue quien inició a Darío en estas corrientes que le siguieron interesando a lo largo de su vida. La repentina muerte de Castro es percibida por Darío a través de una serie de sucesos inexplicables, según su testimonio. Ya en Argentina, en torno al año 1894, no solo la presencia de Darío es relevante en los ámbitos culturales de Buenos Aires, sino también en algunos ambientes esotéricos, aunque se indica que, al margen de que, en efecto, en sus obras se pueden encontrar numerosas referencias a las ciencias esotéricas, «Darío no fue un “iniciado” en ninguna de estas disciplinas ni perteneció a sociedades secretas» (p. 213), con conocimientos bastante superficiales. Sí es cierto, sin embargo, que esta temática le acompañó durante toda su vida y reflejo de ello fueron sus artículos al respecto, como los que dedicó al mundo de los sueños, en una línea freudiana, o la curiosa anécdota que se recoge en este libro sobre su negativa a visitar al moribundo Alejandro Sawa, ya que, según la confesión de su viuda, Darío le confesó «que él no pasaba nunca en donde ella pasaba» (p. 394) en referencia a la muerte. Su interés por ese mundo oculto quedó patente con su ingreso en una logia masónica en enero de 1908, en Managua (p. 373), aunque el malestar y nervios que le acompañaron en la ceremonia le hacen decir, pocos días después, que él no está preparado para sufrir los desvelos que le producen ese mundo de signos y mensajes cifrados.

Como indicaba al comienzo de esta reseña hay en este libro mucho más que el relato biográfico de una vida. Nos queda muy claro que Darío fue plenamente consciente de la importancia de sus aportaciones a la literatura y de que su vida fue una entrega total al Arte, de manera que todo lo demás resultó secundario. Si no fuera porque los lectores somos conscientes de su genialidad, sería difícil perdonarle esa seguridad con la que manifiesta su hegemonía en el mundo de las letras, de la que se ofrecen suficientes testimonios en este libro y que son coincidentes con sus comentarios en las introducciones a sus libros poéticos. No poco interés, también, tienen las numerosas referencias que se hacen a los planteamientos ideológicos de Darío, desde sus conocidas ideas políticas panamericanistas a sus preocupaciones por el desarrollo social de los países que conoció; por ejemplo, se recuerda aquí la mala imagen que le produjo la sociedad rural española, su atraso y analfabetismo, y no deja de ser sorprendente su implicación con la realidad, como las propuestas que plantea para una beneficiosa relación comercial entre España y Argentina, su rechazo al mercantilismo estadounidense o sus quejas por el abandono en que Nicaragua le tiene en Madrid, mientras él intenta que su país quede dignamente representado. Todo ello ha de combinarse, no obstante, con la peripecia vital, ya que nos encontramos ante una biografía, trazada con el detalle necesario. Seguramente al lector le resultará imposible no recriminarle su comportamiento egoísta con las que fueron sus esposas, algo de lo que en este libro se ofrecen numerosas pinceladas, aunque sin recargar las tintas. Puede, también, que ese lector sienta, si no piedad, sí un lamento ante una vida desordenada que despoja al cisne de sus bellas plumas y le obliga a arrastrase, una y otra vez, para conseguir ese mísero dinero que representa una mediocre realidad tan alejada del espíritu del príncipe de los poetas. En conclusión, un libro excelentemente documentado, cuya lectura le permitirá a cualquier tipo de lector adentrarse en la singular y única figura del vate nicaragüense.

(Notiziario n. 107, maggio 2022, pp. 23-26)

A QUARANT’ANNI DAL NOBEL  

A QUARANT’ANNI DAL NOBEL

Patrizia Spinato B.
(CNR ISEM Milano)

Il 21 ottobre 1982, all’età di cinquantacinque anni, a Gabriel García Márquez (Aracataca, 6 marzo 1927 – Città del Messico, 17 aprile 2014) venne assegnato il Premio Nobel per la Letteratura, che ritirò a Stoccolma dalle mani del re di Svezia il 10 dicembre vestito da liquiliqui, simbolo nazionalista dei Caraibi orientali e infrangendo l’etichetta che imponeva il frac. García Márquez era convinto che il premio comportasse nel contempo onore e sfortuna, e raccontava in modo molto teatrale la diffidenza con cui andò a ricevere la medaglia, il diploma ed i centosettantamila dollari, preparato dal minuzioso racconto che dell’esperienza aveva fatto anni prima Pablo Neruda. Con i proventi del premio, a riconoscimento alla carriera giornalistica che lo aveva portato alla notorietà e che continuava ad ammaliarlo, inizialmente pensò di fondare a Bogotà un periodico, El Otro: valutando però l’oggettiva difficoltà di mantenerlo, si accontentò di coronare il sogno di acquistare e restaurare una grande casa a Cartagena, attigua al Monastero di Santa Chiara. Nel 1998, comunque, insieme a nove altri soci, rilevò Cambio, versione colombiana della rivista spagnola Cambio 16, «per fare ancora il cronista» e crescere una nuova generazione di professionisti.

Seppure non ne fu il primo né il piú autorevole esponente del realismo magico, e tentò a piú riprese di definirsi un realista ‘puro’ e ‘triste’ smarcandosi da aggettivazioni impegnative, García Márquez rappresenta magistralmente, nell’immaginario dei lettori, il nuovo romanzo ispano-americano, come testimoniato dalla motivazione del Nobel, concessogli «for his novels and short stories, in which the fantastic and the realistic are combined in a richly composed world of imagination, reflecting a continent’s life and conflicts».

Quale base della narrativa ispanoamericana, lo scrittore colombiano esalta gli elementi magici del romanzo cavalleresco, in particolare dell’Amadís de Gaula, a suo dire precursore del realismo magico. Allo stesso modo, il discorso di accettazione del Nobel, La soledad de América Latina, esordisce con il richiamo al diario di Antonio Pigafetta, vicentino e non fiorentino, ma sicuramente autore di un testo breve ed affascinante, rigoroso e fantasioso, in cui si trovano in nuce i voli immaginifici della narrativa ispanoamericana moderna. E la novela total di García Márquez, nonostante le riscritture e i dubbi espressi in alcune dichiarazioni, rientra a pieno titolo in questa corrente magica per quell’esplosione del meraviglioso che coinvolge irrimediabilmente il lettore, pur sottolineando il peso di una realtà smisurata, la sua avaria, la violenza. In Cien años de soledad emerge l’attenzione sia alle strutture esterne che al ruolo creatore e spesso rivoluzionario del linguaggio: il tradizionale realismo del romanzo tellurico viene qui contaminato da favola e mito, espressi con toni brillanti, iperbolici, impregnati di umorismo e di fantasia.

La breve quanto precisa motivazione dell’Accademia Svedese delle Lettere aiuta ad isolare i punti su cui si fonda la concessione del Premio Nobel. Innanzi tutto non si tratta di scoprire un autore sconosciuto, giacché dalla fine degli anni Cinquanta Gabriel García Márquez catalizza il miracoloso e il reale, condensa allusioni letterarie, propone descrizioni grafiche, palpabili e a volte opprimenti, realizzate con la precisione di un reportage. Ha dato in tal modo vita ad un universo proprio, il mondo che circonda Macondo, paese di sua invenzione sulla scorta delle memorie infantili, legate all’allegria ma anche all’incertezza, alla marginalità e alla solitudine. Si sottolinea altresì che in questo mondo è forse la morte a dominare la scena, sebbene il sentimento tragico della vita che ne alimenta le opere esprima al tempo stesso una forza vitale terrificante ed edificante di quanto è vivo e reale.

L’Accademia di Svezia fa inoltre riferimento all’opera feconda del suo autore e al riconoscimento internazionale di incredibile portata che determinò l’apparizione, nel 1967, di Cien años de soledad. Ogni nuova opera di Gabriel García Márquez da quel momento è attesa con trepidazione dalla critica e dal pubblico, come un avvenimento di trascendenza internazionale, e viene tradotta e pubblicata tempestivamente, con grandi tirature, in numerose lingue. Crónica de una muerte anunciada completerebbe l’immagine di un autore che riunisce in sé un talento narrativo debordante, quasi opprimente, e la maestria di un artista del linguaggio, conscio della propria abilità tecnica, disciplinato e in possesso di un ampio bagaglio letterario.

Infine, l’Accademia richiama la ricca tradizione culturale e colloca lo scrittore premiato nel contesto di un continente la cui vitalità creatrice è universalmente riconosciuta. In America Latina si fonde una gran quantità di impulsi e di tradizioni: gli elementi della cultura popolare, come la narrazione orale, con le reminiscenze delle culture indigene piú sviluppate; le correnti del barocco spagnolo con gli impulsi del surrealismo e di altre correnti letterarie europee. Tutto questo produrrebbe un crogiolo ricco e vivificante, da cui tanto García Márquez come altri scrittori ispanoamericani estraggono a piene mani materia e ispirazione.

Il romanzo acquista quindi caratteristiche oniriche, ed è costituito da frammenti di quotidianità che danno a loro volta luogo ad una realtà nuova e diversa, circolare. Il narratore onnisciente, con distacco, umorismo e vis polemica, rielabora il capitale di esperienze e di elementi concreti su cui si basa la fantasia ed evoca le imprese fantastiche che hanno caratterizzato la narrazione della scoperta americana: le atmosfere straordinarie dei romanzi cavallereschi, la rielaborazione dei miti, il barocchismo religioso, le iperboli numeriche, le amplificazioni. Il fantastico finisce per sottolineare il peso della realtà: la storia tragica della piantagione, la progressiva decadenza economica e sociale, la repressione militare, la violenza privata, la perversione del potere. Infine, la rovina finale di Macondo allude a quella del mondo americano, in un clima apocalittico di evidente ascendenza biblica.

Il Nobel viene quindi a costituire, per García Márquez, un omaggio alla poesia, per le sue capacità divinatorie e per la sua permanente vittoria contro il potere della morte. Per i popoli latinoamericani è il riscatto consolatorio e solidale dell’utopia della vita contro l’oblio, la perifericità e la sopraffazione:

Sin embargo, frente a la opresión, el saqueo y el abandono, nuestra respuesta es la vida. Ni los diluvios ni las pestes, ni las hambrunas ni los cataclismos, ni siquiera las guerras eternas a través de los siglos y los siglos han conseguido reducir la ventaja tenaz de la vida sobre la muerte. […] los inventores de fábulas que todo lo creemos, nos sentimos con el derecho de creer que todavía no es demasiado tarde para emprender la creación de […] Una nueva y arrasadora utopía de la vida, donde nadie pueda decidir por otros hasta la forma de morir, donde de veras sea cierto el amor y sea posible la felicidad, y donde las estirpes condenadas a cien años de soledad tengan por fin y para siempre una segunda oportunidad sobre la tierra.

La riflessione profonda intorno al destino umano, in cui Giuseppe Bellini ritrova il memento quevedesco che conclude la commedia della vita, è la cifra di tutti i personaggi di Gabriel García Márquez i quali, attraverso le personali contraddizioni, si trovano a confrontarsi con la mutevolezza della fortuna, l’instabilità del mondo, la brevità della vita, l’inconsistenza delle cose, la perifericità del contesto in cui si trovano: un’apparente epopea della sconfitta, insomma, che il riconoscimento del Nobel sorprendentemente trasforma nell’utopistico riscatto di un intero continente.

(Notiziario n. 106, marzo 2002, pp. 17-19)

VISLUMBRES: PREDILEZIONI, ELEZIONI, AFFINITÀ

VISLUMBRES: PREDILEZIONI, ELEZIONI, AFFINITÀ

Pier Luigi Crovetto
Università di Genova

Ardua impresa presentare i due ponderosi tomi di Vislumbres. Prendendola molto alla lontana, raccomanderei in esordio di ‘assumerli’ alla stregua di un vaccino. Di un argine al virus della chiusura in noi stessi, del trinceramento entro i nostri augusti confini. Mi piace pensare in altre parole che, mettendovi mano, l’Ambasciata di Spagna in Italia abbia inteso invitarci a praticare la trasversalità, l’apertura, la contaminazione. Una chiamata alla «milizia contro la malizia» del sovranismo, del suprematismo, del «prima noi…» (americani, italiani, spagnoli o che altro ancora!), contro il resto del mondo. Ribadendo che due più due, nell’aureo dominio dell’aritmetica culturale, fa sempre qualcosa più di quattro.

A ruota, la domanda impossibile da scantonare; come è fatto questo libro? Due tomi si è detto, per all’incirca mille pagine. Poco meno di 200 voci (94 il primo; 92 il secondo). Più spagnoli e iberoamericani che italiani (17 e 20 occorrenze di questi ultimi se non ho contato male, rispettivamente: e ci sta dalla prospettiva che vi ho detto!). Sottotitolo, Constelación escogida de protagonistas de nuestra historia común. Dove «escoger», scegliere, introduce il secondo, correlato e imprescindibile ‘interrogante’: secondo quali criteri? Ricordo– piccolo inserto autobiografico, che spero mi perdonerete ‒quando Mario Andreose m’affidò la regia degli aggiornamenti per i Dizionari Bompiani delle Opere e degli Autori (per gli stessi settori dei quali qui ci si occupa). Il più –mi parve lampante allora‒ non era compilare in proprio le voci, ovvero distribuirle, o ancora correggerle e uniformarle in un editing certosino, quanto piuttosto compilare un indice, decidendo chi inserire e chi no, e quale spazio assegnare a ciascuna voce. E se tanto valeva per una selezione in base alla qualità o rappresentatività letteraria (fatta salva la possibilità sempre incombente di mal applicarle o travisarle), non è difficile comprendere quanto più arduo sia scegliere in ragione del massimamente labile e opinabile grado di appartenenza a una storia comune.

E dunque, cominciamo di qui. Dall’indice. E dai criteri che lo hanno informato: dal più ovvio procedendo in direzione del complesso o controverso. Non senza aver in limine apprezzato il rilievo dato a quanti dalle retrovie delle cattedre universitarie e delle case editrici si sono adoperati ad allargare e tenere sgombri i canali del dialogo e della sintesi conseguente. Una famiglia nobilissima qui rappresentata da Alberto Boscolo, José Luis Gotor, Franco Meregalli, Dario Puccini, Margherita Morreale, e specialissimamente dal compianto Giuseppe Bellini, cui Patrizia Spinato dedica un ritratto sobrio quanto colmo di affetto e di struggente nostalgia.

Dicevo dei criteri della scelta. In prima battuta, gli incroci parentali, le ascendenze, i genî condivisi, per dir così. Abbiamo appena iniziato a scorrere il primo volume che già ci imbattiamo in Rafael Alberti, ‘italiano’ (con obbligatorie virgolette) tanto dal lato paterno come da quello materno dei Merello, di Pío Baroja, Nessi per parte di madre, fino a giungere a José Ortega y Gasset (che con la sua sposa Rosa Spottorno programmava addirittura di stabilirsi in Italia per rafforzare le di lei radici e appartenenze). Con alcune sapide curiosità per contorno: alla voce Picasso leggiamo come il gran Pablo si sia prima compiaciuto di riconoscersi nei Picasso del Levante ligure per più tardi decidere di identificarsi in un esotico principe maghrebino rinvenuto tra le pagine della quattrocentesca Crónica del rey don Pedro I de Castilla (proprio lui, quello della battaglia di Montiel del 1369!).

A ruota, le predilezioni, le elezioni, le affinità. Traslate in fascinazioni, letture, viaggi. Nei due sensi, ovviamente. E in ragione diretta del prestigio e della forza attrattiva che di epoca in epoca premia questa o quella parte. Anche qui, legione sono gli esempi possibili. Da Cervantes che alla corte del cardinal Acquaviva s’abbevera alle poetiche italiane da travasare nelle Novelas e nel capolavoro, al Marqués de Santillana dei 42 Sonetos fechos al itálico modo e della Comedieta de Ponza, a Garcilaso de la Vega che attinge alla bucolica italiana per le sue Églogas ecc. ecc.. E, sul versante opposto, a Domenico Scarlatti clavicembalista di camera alla corte di Filippo V e Isabella Farnese tra Madrid e Siviglia, contendendone il favore al cantante castrato Farinelli. Casi, ancora, di innamoramenti e ripulse. Da un Benedetto Croce che ritiene di non poter licenziare la Storia del Regno di Napoli prima di un pellegrinaggio alle ‘fonti’ ultrapirenaiche (oscillando tra l’ammirazione per la ricchezza e l’ordine degli archivi catalani e il rigetto per le corride, il flamenco, l’architettura araba o il barocco) a Alessandro Manzoni antispagnolo in quanto milanese.

Pendolarismo, quello di cui si tratta, ad assiduità e varietà crescenti nel tempo. Percorsi d’iniziazione in uno spazio affine ma relativamente immune da asprezze autocratiche (Joaquín Sorolla tra Roma e Assisi, Rafael Sánchez Mazas, Carmen Laforet, Alberti e María Teresa León nella capitale, Ramón Gómez de la Serna a Napoli e via enumerando) o di apprendistato, come quello di García Márquez allievo alla Scuola sperimentale di Cinematografia, corrispondente de l’Imparcial, tra leggende di santi apparenti e lucore di stelle emergenti (dalla Lollobrigida alla Loren). Per finire con romitaggi a mete circonfuse di magia, come la Sicilia: «il luogo ‒scrive Jorge Luis Borges‒ dove gli uomini iniziarono a costruire la speculazione filosofica, il castello di dubbi da cui nacque un mondo parallelo fatto di parole, ma non per questo meno vero del mondo materiale», per finire in dissolvenza con i più prosaici viaggi di Sergio Leone al deserto di Tabernas, alla ricerca di sfondi credibili per i suoi celebratissimi spaghetti western.

Capitolo a parte (ma di notevolissimo interesse storiografico) quello degli incontri a carattere, come dire?, sistemico e strutturale: dai militari italiani al servizio di Carlo v o Filippo ii, ai marinai associati alle grandi spedizioni navigatorie del quattro-cinquecento o scientifiche del secolo xviii (da Pigafetta ad Alessandro Malaspina); dai religiosi pellegrini o residenti nella Roma papalina (da Sant’Ignazio di Loyola a Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus), ai volontari accorsi a un bando e all’altro durante la guerra civile spagnola, fino agli esuli repubblicani riparati in Italia dopo l’instaurazione della dittatura. Inutile provarcisi, a voler coprire simile, inesauribile varietà non si può altro che ricorrere all’artifizio dell’enumerazione caotica.

Fin qui, l’ovvio. Oltre il quale ci si imbatte in improvvide espunzioni e in salutari quanto inattesi innesti. Per le prime, il minimo sindacale. Basti alludere alle assenze di Cristoforo Colombo, punto d’incontro tra la scienza navigatoria italiana e la politica di potenza di Fernando il Cattolico (a sua volta anello di giunzione ispanoitaliana in quanto modello per il Principe nuovo machiavelliano), di un Juan Boscán, pronubo dei Rinascimenti delle culture sorelle, o ancora e più ravvicinatamente del guatemalteco Miguel Ángel Asturias, viaggiatore instancabile per lo Stivale nei lunghi anni del suo esilio volontario e, tra l’altro, promotore del «Primer encuentro de escritores latinoamericanos» celebrato sotto l’egida del Columbianum a Genova, città nella quale risiedette tra il 1963 e il 66, lasciandocene bozzetti indimenticabili). Per non dire, tra i molti altri, dell’assenza di Luca Cambiaso e dei maestri della sua scuola reclutati dal Re prudente per i decori dell’Escorial… e la lista ‒lo si capisce bene‒ potrebbe allungarsi ancora.

Più proficuo chiudere sulle inopinate annessioni. Per dir delle quali e delle suggestioni che ci regalano m’atterrò a tre voci: El Cristo de Pasolini o la pantalla como sudario, di Frederic Amat, il Camilleri, el hombre al que nunca vi di Alicia González Bartlett e Un peregrino de la filosofía, ritratto che Fernando Savater dedica a Santayana. Un dato le accomuna: il poco che lega i tre alla cultura spagnola. Scontatamente per Pasolini, diviso tra il Friuli dei primordi e la Roma della maturità e Camilleri, uomo di Sicilia trapiantato nella capitale. Meno ‒o, se si vuole, paradossalmente‒ per Santayana, che nasconde la sua ispanicità sotto una livrea d’apolide con ‘ribetes’ anglosassoni, se è vero come è vero che i dizionari filosofici lo rubricano d’emblée come George.

In sintesi. Amat ci racconta della sua ricerca d’una figura ascetica, allucinata, remota che rappresenti l’antonomasia dell’attore nel corto Foc al Cántar su testo di Joan Brossa. L’epica dei cineforum lo mette sulle tracce di Enrique Irazoqui, catalano, ‘desaparecido’ attore di strada, anarchico, ateo, fervente antifranchista, che accettò di vestire i panni del Cristo nel Vangelo secondo Matteo solo dietro promessa di un sostanzioso sostegno della produzione alla causa. Quella che ci viene riferita è una minima quanto fortunata quête, coronata ‒tra «charlas de entremesa» e boccali di birra chiara‒ in una rievocazione minuta della filmografia del cineasta, con significativo indugio sulla «presencia de este dios metido en la piel de un hombre», intermediata dagli insuperabili modelli iconici del Pontormo nella Ricotta, del Masaccio in Accattone, fino al Mantegna di Mamma Roma de 1962. In un gioco di specchi sempre più intrigante, Amat e Irazoqui si ritrovano a vedere nel Pasolini assassinato al Lido di Ostia una replica laica del Cristo che scaccia i mercanti dal Tempio. Troneggia così il fustigatore dell’età dello scarto, della «tossicità della cattiva televisione», della «devastazione spirituale» come effetto collaterale dell’«economia del consumo indiscriminato che azzera la cultura, le forme di vita autoctone e delle lingue minoritarie silenziate da regimi fascisti», per questa via annettendolo del pari alla minuta cronaca indipendentista catalana e alla storia universale.

Analogo discorso ‒dicevo‒ per l’Andrea Camilleri, rievocato da Alicia González Bartlett. Che è come dire il Commissario Montalbano prismaticamente traguardato dall’occhiale di Petra Delicado. Storia di un dialogo ininterrotto, affidato a «interviste pubblicate su quotidiani», farcito di equivoci e malintesi, modulato su funambolici controcanti, nell’attesa di un incontro ripetutamente programmato e sempre procrastinato, prima di venir definitivamente archiviato dalla notizia della morte del nonagenario Andrea. Nella rievocazione contessuta di «cariño y complicidad», s’intravede il processo di progressiva reciproca identificazione, mutua annessione, osmosi e corresponsione di intellettuali sensi, fino a varcare le soglie d’una trasmigrazione o reincarnazione dell’uno nell’altra. Nella rappresentazione sorridentemente gotica della Bartlett mi è accaduto così d’immaginare il vecchio scrittore spezzare il guscio della sua essenziale sicilianità, della sua progressiva cecità, e passeggiare per le Ramblas, aggirarsi in compagnia dello spirito di Ildefonso Falcones sotto le vertiginose navate di Santa María del Mar, gustare un pan con tomate tra i banchi variopinti della Boquería.

Ed eccoci, per chiudere, al Santayana di Savater. Filosofo spagnolo di nascita, «educato a Boston, professore ad Harvard, conferenziere a Cambridge e in lungo e in largo per il mondo intero…». Spirito inquieto, capace di rinunciare alla prestigiosa cattedra harvardiana per farsi «estudiante viajero», senza mai abdicare ‒aggiunge don Fernando‒ alla sua vocazione andariega e al suo radicale materialismo. Paradosso vivente: simpatizza per i ribelli alla repubblica democratica ma rifiuta al loro trionfo di tornare in patria, è ateo militante ma cerca la pace all’ombra del convento di «monjas azules» di Santo Stefano Rotondo al Celio, riscoprendo ‒buon peso, nonché apoteosi dei prodigi della concomitanza culturale‒ in quella Roma papalina le sue revocate radici. Santayana, –ribattezzato da Savater Jorge Ruiz‒ ci viene così incontro sotto le spoglie di un vecchio signore che ritira di persona il passaporto all’Ambasciata del suo paese, per disporsi alla tumulazione nel Panteon degli spagnoli, sotto un ‘letrero’ che ‒ancora una volta, paradossalmente‒ inneggia al Cristo che «ci ha reso possibile la gloriosa libertà dell’anima in cielo».

(Notiziario n. 105, gennaio 2022, pp. 17-21)

«VISLUMBRES»: SGUARDI

«VISLUMBRES»: SGUARDI

Gaetano Sabatini
(Direttore CNR ISEM)

Le plurisecolari relazioni culturali tra le penisole iberica e italiana, territori definiti come Spagna e Italia ben prima che con questi termini fossero identificate delle nazioni, si prestano ad essere declinate, analizzate e divulgate secondo infiniti piani di lettura e interpretazione, e una ricchissima storiografia, in molteplici lingue, non solo in italiano e spagnolo, ne ripercorre le molteplici sfaccettature e ne approfondisce continuamente nuovi aspetti e contenuti, anche in riferimento al continente in cui, sin dal suo affacciarsi al mondo occidentale alle soglie dell’età moderna, ha costituito uno spazio di fusione per eccellenza delle due culture, il mondo ibero-americano.

I volumi che vengono presentati, che sin dal suggestivo titolo Vislumbres, sguardi, rimandano a una visione soggettiva, presentano e scompongono il tema delle relazioni storico-artistico-culturali tra le due sponde del Mediterraneo attraverso la scelta di un particolare strumento descrittivo, quello delle brevi, ma molto ricche e complete, biografie dei protagonisti di queste relazioni, riunite nella forma del dizionario.

Si tratta, è bene sottolinearlo, di un’opera che si prefigge un obiettivo molto ambizioso, quello di abbracciare in un unico disegno culturale non meno di venti secoli di storia, dall’antichità all’età contemporanea, e gli ambiti diversissimi in cui si sono mossi i protagonisti di questa densa trama di relazioni, ciò che motiva certamente le oltre ottocento pagine dei due poderosi volumi. Una sfida di questa natura, oltre ad impegnare un gran numero di qualificati ricercatori, non avrebbe potuto essere realizzata se non attraverso un’attenta regia, quale quella esercitata dall’Ufficio Culturale dell’Ambasciata di Spagna in Italia, e con il coinvolgimento di importanti istituzioni scientifiche –dall’Instituto Cervantes al Consiglio Nazionale delle Ricerche– e di prestigiose associazioni accademiche –come la Asociación de Investigadores Españoles en la República Italiana e l’Associazione di Ispanisti Italiani– di entrambi i paesi così come le rappresentanze diplomatiche in Italia di molte nazioni latino-americane nonché dell’organizzazione che tutte le ricomprende in seno ai rapporti con l’Italia, l’Istituto Italo Latino Americano di Roma.

Come studioso di storia delle relazioni economiche e finanziarie tra Italia e Monarchia Spagnola nella prima età moderna, manifesto tutta la mia gratitudine per la realizzazione di questo importante strumento di ricerca e di divulgazione.

Come Direttore dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, esprimo la mia grande soddisfazione per il coinvolgimento dell’Istituto in questa importante intrapresa culturale attraverso la partecipazione dei ricercatori della Sede di Milano, riuniti nel gruppo di ricerca diretto da Patrizia Spinato, che vanta una lunga tradizione di studi nell’ambito della storia delle letterature ibero-americane.

(Notiziario n. 105, gennaio 2022, p. 16)