Elisa T. Munizza, «Raúl Zurita y Dante Alighieri: diálogo entre la selva oscura y las estrellas», Madrid, Editorial Verbum, 2022

Elisa T. Munizza, «Raúl Zurita y Dante Alighieri: diálogo entre la selva oscura y las estrellas», Madrid, Editorial Verbum, 2022, 287 pp.

Appare pubblicata, per i tipi di Verbum, parte della tesi dottorale discussa nel 2020 da Elisa Munizza presso l’Università di Alicante sotto la guida di José Carlos Rovira.

Dopo aver chiarito, nelle premesse, lo status quaestionis, lo studio si concentra sostanzialmente sui debiti danteschi nell’opera di Raúl Zurita, a partire dall’influenza della nonna materna, Veli, artista genovese che porge ai nipoti la cultura italiana classica, in particolare Dante Alighieri. A lei e al bagaglio linguistico e letterario italiano è dedicato il primo capitolo del libro, intitolato La patria del lenguaje: Josefina Pessolo.

Le influenze del sommo poeta sono evidenti fin dalle prime composizioni del poeta cileno, del 1970, come ben sviluppa il secondo capitolo, El infierno y su importancia en la lírica zuritiana. E, sebbene la prima parte della Commedia sia preponderante rispetto alle altre due, nessuna delle sue composizioni ne porta il titolo.

Il terzo capitolo, La Idea de Salvación, tratta della missione profetica di Dante e della strada per la felicità, che questa volta per Zurita non passa né dal poeta fiorentino, né dalle convinzioni religiose e politiche dell’ava italiana. Lo scrittore si percepisce quale un profeta, la cui missione è condurre l’umanità verso un luogo utopico attraverso un percorso inverso a quello dantesco, innescando la scintilla divina che è in ognuno di noi.

Nel quarto capitolo, Zurita como Dante: Auctor, Agens, Viator, Munizza cerca di distinguere i vari ruoli del poeta cileno, a partire dal contesto dittatoriale e nell’avvicendarsi di molte voci liriche disorientate ma componibili attraverso l’amore.

Zurita rafforza le conoscenze italiane trasmesse sul piano familiare attraverso lo studio, tanto da mettersi alla prova nella traduzione di Dante. Nel quinto capitolo, Raúl Zurita traduce la Divina Commedia: comentario a la traducción del V Canto, la studiosa analizza appunto i versi dedicati alle vicende di Paolo e Francesca, i riferimenti classici, i rimandi biblici nella ricreazione poetica dell’autore cileno.

Chiudono il volume, dopo La conclusión es la muerte del amor, un apparato di immagini, la traduzione del V canto dantesco a firma di Zurita e un’intervista di Munizza allo scrittore intorno ai procedimenti creativi, alla finalità della poesia, ai debiti della cultura italiana nella sua opera artistica.

Patrizia Spinato B.

(Dal Notiziario n. 112, marzo 2023, pp. 12-13)

Agenor Gomes, «Maria Firmina dos Reis e o cotidiano da escravidão no Brasil», São Luís, Editora AML, 2022

Agenor Gomes, Maria Firmina dos Reis e o cotidiano da escravidão no Brasil, São Luís, Editora AML, 2022, 360 pp.

Questo libro presenta un lavoro profondo e rigoroso svolto da Agenor Gomes sulla biografia, le opere e l’azione sociale di Maria Firmina dos Reis (1822/25 – 1917), considerata la prima scrittrice brasiliana, nata a São Luís do Maranhão e la cui attività si è svolta in campagna, a Vila de Guimarães, sempre nel Maranhão.

Maria Firmina, figlia di una schiava liberata, ha osato infrangere gli ostacoli imposti per la sua condizione di donna di colore in una società patriarcale e schiavista. È diventata insegnante, scrittrice, musicista e attivista sociale in un momento in cui anche le donne nate in famiglie benestanti erano private dei diritti basilari.

Il testo di Agenor Gomes è suddiviso in tredici capitoli, preceduti da un’introduzione. Nei primi due capitoli l’autrice contestualizza il momento storico-sociale in cui Maria Firmina visse gran parte della sua vita, il Maranhão nel XIX secolo. Nei capitoli 3, 4, 5 e 6 l’autore riporta la biografia e la produzione letteraria della scrittrice. I capitoli successivi, dal 7 al 10, sono dedicati alle varie sfaccettature di Maria Firmina: l’attivismo sociale, l’attività didattica e la causa abolizionista. I capitoli 11, 12 e 13 sono dedicati alle circostanze della sua morte, nonché alla scoperta e al riconoscimento della sua opera molti anni dopo.

Secondo Agenor Gomes, Maria Firmina rompe con la narrazione, adorata e alimentata dalla società schiavista del suo tempo, secondo cui i neri schiavi erano inferiori e meno capaci. Già prima di Castro Alves, riconosciuto autore abolizionista, Maria Firmina denunciava la violenza della schiavitù. Le parole ‘libero’ e ‘libertà’ furono inserite, da lei, nel vocabolario nero quasi trent’anni prima di Abolition. Già ultimato nel 1857, ma pubblicato solo nella seconda metà del 1860, il romanzo Úrsula, la sua opera più nota, inaugura il romanzo afrobrasiliano. Il nome dell’autore non compare nella prima edizione del libro, ma solo l’espressione «Una maranhense».

Dimenticata per decenni, fu grazie a José Nascimento Morais Filho che, nel 1978, l’opera di Maria Firmina dos Reis ricevette nuovo e grande interesse. Da allora, ci sono stati molti studi accademici sul suo lavoro dentro e fuori il Brasile, comprese le riedizioni aggiornate del romanzo Úrsula, la cui trama abolizionista emerge dallo sguardo dell’autrice nella stiva di una nave di schiavi, sulla base dei racconti ascoltati dai suoi antenati: «È la prima volta, nel romanzo brasiliano, che un personaggio nero africano, ridotto in schiavitù, ‘Preta Susana’, narra la tragedia della traversata atlantica nella stiva di un tumbeiro in Brasile» (p. 32).

Quanto alla storia pubblica di Maria Firmina, che inizia con il concorso per diventare insegnante, è segnata da polemiche e persecuzioni da parte delle autorità, soprattutto perché è una donna di colore che cerca istruzione, professione e riconoscimento. Dopo un lungo processo, che comprende anche il cambio della data di nascita, Maria Firmina viene nominata, il 16 agosto 1847, maestra sulla cattedra di prime lettere, che le impone di trasferirsi a Vila de Guimarães. L’istruzione avveniva separatamente per ragazze e ragazzi e a Maria Firmina tocca lavorare con le ragazze; esercita l’insegnamento per trentaquattro anni, fino a quando va in pensione, nel 1881.

Dagli anni Sessanta dell’Ottocento il movimento abolizionista acquista sempre più forza ed espressione e Maria Firmina, a sua volta, si impegna sempre più. Contemporanea di famosi abolizionisti come José do Patrocínio, Ruy Barbosa e Graça Aranha, nel 1887 scrive e pubblica il racconto «A escrava», lo stesso anno in cui è creata la Sociedade Abolicionista Maranhense, con sede a São Luis.

Tuttavia, nonostante tutti i suoi sforzi, i suoi stessi contemporanei non furono onesti con Maria Firmina e lei fu, a poco a poco, dimenticata e relegata. Quando fu creata l’Academia Maranhense de Letras non si ricordava nemmeno, tant’è che mancava una donna tra i fondatori, come era abituale all’epoca. A questo punto, Agenor Gomes ricorda che la stessa Accademia Brasiliana delle Lettere ha accettato la prima donna, la scrittrice Raquel de Queiroz, solo nel 1977.

Maria Firmina muore l’11 novembre 1917, in una casa semplice, circondata da gente umile. Dopo la sua morte, il suo lavoro è stato praticamente dimenticato ed è stato riscoperto quasi cento anni dopo. L’autore di questa recensione avverte un’enorme lacuna nella propria educazione, dovuta al fatto che non ha avuto contatti con i suoi libri a scuola. Per fortuna ultimamente sta crescendo molto l’interesse per l’opera di questa importante scrittrice brasiliana. 

Paulo Irineu B. Fernandes

(Dal Notiziario n. 112, marzo 2023, pp. 11-12)

Carmen Alemany Bay, «Textos inéditos e inconclusos de Miguel Hernández (Estudio y edición)», Jaén, Editorial Universidad de Jaén, 2022

Carmen Alemany Bay, Textos inéditos e inconclusos de Miguel Hernández (Estudio y edición), Jaén, Editorial Universidad de Jaén, 2022, 378 pp.

Il fascino dell’inedito seduce sempre sia il lettore che lo studioso. Bozze, appunti, materiali conservati volontariamente dall’autore o per affetto dagli eredi costituiscono un capitale preziosissimo per la ricerca filologica: anche quando non intaccano un corpus ufficiale e riconosciuto, in qualche modo contribuiscono a perfezionare la conoscenza dello scrittore e della genesi della sua opera.

È questo il caso dell’ultimo studio di Carmen Alemany Bay, una delle maggiori esegete dell’opera di Miguel Hernández, cui ha dedicato per decenni la propria attività critica da quando nel 1988, sotto la guida di José Carlos Rovira, ha intrapreso gli studi dottorali orientandosi sul poeta oriolano attraverso il fondo appena depositato dalla famiglia all’Archivio storico di San José di Elche: studi culminati nel 1992 con la tesi dal titolo El antetexto hernandiano. Análisis del proceso de escritura y propuestas para una nueva edición de la Obra poética de Miguel Hernández, in cui riscattava un centinaio di composizioni inedite e screditava la tesi secondo la quale la poesia di Hernández fosse improvvisata e non frutto di un coscienzioso lavoro personale. Sotto la supervisione del suo maestro e di Agustín Sánchez Vidal ha pubblicato le edizioni della Antología poética. El labrador de más aire (1990) e la Obra completa (1992), capitalizzando il suo lungo e minuzioso lavoro di ricerca. Oltre ad una decina di saggi, editi tra il 1988 ed il 2021, la cattedratica alicantina nel 2013 ha anche visto pubblicata dalla prestigiosa Visor la monografia Miguel Hernández, el desafío de la escritura. El proceso de creación de la poesía hernandiana.

A distanza di trent’anni, Carmen Alemany condivide con il pubblico altri centosettanta testi inediti trovati nei manoscritti: testi, non poesie, che ribadiscono l’«insistente y voluntarioso proceso de creación del poeta de Orihuela» (p. 18), esercizi letterari che documentano il suo apprendistato poetico e di cui si serví soprattutto per comporre le poesie del primo ciclo, Perito en lunas. A questi si aggiungono progetti di composizioni, poesie incompiute, disegni, note relative alla sua vita quotidiana, di grande valore emotivo. La studiosa alicantina insiste sull’«importancia de estos manuscritos porque el propio poeta los conservó como parte también de su obra y, después de su muerte, y no sin riesgos, su esposa Josefina Manresa los atesoró» (p. 19).

Nello studio introduttivo, la Alemany torna sui procedimenti adottati da Hernández per raggiungere la forma poetica a lui piú confacente: da parziale autodidatta, sperimenta e corregge incessantemente, soprattutto nel suo primo periodo artistico. Anche a livello grafico, rileva delle costanti (incisi, assenza di punteggiatura, oscillazione di maiuscole e minuscole, cancellature, varianti…) che aiutano a ricostruire la genesi del prodotto finale in versi, partendo da un testo solo a prima vista in prosa. Della totalità dei manoscritti inediti qui raccolti, la maggior parte, un centinaio, appartengono al primo ciclo della poesia hernandiana; rispettivamente una ventina ed una trentina al secondo e al terzo ciclo, e a meno di venti al quarto, nella tragica fase finale della vita del poeta.

I testi vengono riprodotti in modo chiaro e fruibile da pagina 85 a pagina 378; anche le note al testo sono leggibili e comprensibili anche per i non addetti ai lavori che sicuramente si avvicineranno all’opera. In questo modo la studiosa alicantina riesce nel suo intento di restituire la totalità del corpus testuale del poeta oriolano non solo ai filologi, ma anche a quel pubblico per cui Miguel Hernández è assurto ad una dimensione mitica grazie ad una biografia paradigmatica e ad un’opera, come qui è ben circostanziato, di solo apparente immediatezza e semplicità.

Il tutto è dedicato alla memoria di Carmencita, che era cresciuta nella cifra umana e letteraria del poeta, tanto da interiorizzarlo e da considerarlo figura quotidiana e familiare: come certamente Hernández avrebbe voluto, per tutti i suoi lettori.

Patrizia Spinato B.

(Notiziario n. 112, marzo 2023, pp. 10-11)

Krzysztof Pomian, «Il Museo. Una storia mondiale. I. Dal tesoro al museo; II. L’affermazione europea, 1789-1850», trad. a cura di Luca Bianco e Raffaela Valiani, Torino, Einaudi, I, 2021, XXX – 486 pp.; II, Torino, Einaudi, 2022, XIV

Krzysztof Pomian, Il Museo. Una storia mondiale. I. Dal tesoro al museo; II. L’affermazione europea, 1789-1850, trad. a cura di Luca Bianco e Raffaela Valiani, Torino, Einaudi, I, 2021, XXX – 486 pp.; II, Torino, Einaudi, 2022, XIV – 394 pp.

Krzysztof Pomian, attualmente direttore scientifico del Museo d’Europa a Bruxelles, è un filosofo, storico e saggista polacco che ha svolto tutta la sua carriera all’interno del CNRS in Francia dove è giunto nel 1973 per ragioni politiche. Storico emerito delle idee e intellettuale di fama internazionale, Pomian ha focalizzato la sua attività storico-filosofica sulla dottrina della conoscenza, sulla storia della cultura europea ma, soprattutto, sulla storia delle collezioni e dei musei, di cui è diventato uno dei massimi studiosi al mondo.

La sua monumentale impresa, Il Museo. Una storia mondiale, frutto di più di un trentennio di studi, traccia la storia del museo dalle origini fino ai giorni nostri e prende avvio da un passato lontano grazie al primo di tre volumi intitolato Dal tesoro al museo. La prima parte del libro costituisce un viaggio nel tempo: dall’Antichità greca, latina e orientale, si passa per i tesori reali del Medioevo, fino all’entusiasmo per le reliquie della Roma antica nelle cerchie dei principi e dei letterati con la nascita delle collezioni private. Vi incontriamo Carlo V, i re di Francia e Jean, duca di Berry, Petrarca e gli umanisti, i Gonzaga, gli Este e i Medici. La seconda parte è interamente dedicata all’Italia dove, dalla fine del Quattrocento, nascono e si diffondono i primi musei, dapprima a Roma, poi a Firenze, Venezia e Milano. Ed è dall’Italia che i visitatori provenienti dai paesi transalpini portano con sé, insieme ai ricordi di viaggio, il desiderio di avere un museo anche nella propria città, argomento di cui si occupa la terza e ultima parte del libro.

Una storia, quindi, dei diversi modi di contemplare, gestire e valorizzare gli oggetti, ma anche una storia di commerci, saperi e tecniche. Una storia di congiunture economiche, circostanze politiche, tendenze culturali e, non meno, clima religioso. E, al tempo stesso, è una storia affascinante di donazioni e vendite, furti e saccheggi, guerre e diplomazia, problemi giuridici e organizzativi, arte e architettura.

«Oggi esistono circa 85.000 musei,» afferma Pomian «forse di più, o forse di meno perché i musei si ribellano alle statistiche… e puntare all’esattezza equivale a sprofondare nell’illusione».

Moltissimo tempo è trascorso prima che il museo trovasse la sua forma e la sua funzione di conservazione, studio e messa in mostra dei suoi pezzi. Eppure, una storia mondiale dei musei, politica, sociale e culturale non era mai stata scritta. In quest’opera Krzysztof Pomian ci prende per mano e ci porta, innanzitutto, a riflettere sul gesto che per migliaia di anni ha condotto gli uomini a conservare, acquisire e accumulare oggetti ritenuti belli, interessanti, intriganti e rari per piacere personale, ma anche come attributo di potere e ricchezza. È da questa prima fase che a poco a poco sono emerse, parallelamente all’ideale democratico, le forme del museo di oggi, votato alla conservazione degli oggetti: un’istituzione in perenne sviluppo, utile allo svago e all’educazione di tutti.

Nel secondo volume, L’affermazione europea, 1789-1850, Pomian racconta come grazie alla Rivoluzione francese l’accesso ai capolavori artistici fu elevato al rango dei diritti dell’uomo e il museo, deputato a garantirne l’esercizio, divenne l’attributo fondante di una nazione. Il Louvre, rivoluzionario e imperiale, ne è il prototipo. In Europa, l’impatto del 1789 si protrasse fino alla metà del XIX secolo. Il saccheggio praticato dagli eserciti rivoluzionari e imperiali a beneficio della Francia rese gli individui consapevoli del carattere emblematico dei beni artistico-culturali per i popoli, e i musei contribuirono a legittimare il potere del sovrano conferendogli un carattere nazionale. Passando in rassegna i musei a partire dalla National Gallery, al British Museum, al Prado, ai musei borghesi di Francoforte e Lipsia cosí come all’Altes Museum di Berlino, alla Pinacoteca di Monaco, al Walhalla vicino a Ratisbona finanche ai musei di provincia, Pomian ne valuta la portata in quanto sono tutti il risultato di questa dinamica. Con la rivoluzione industriale, che trovò la sua più compiuta espressione nell’Esposizione universale di Londra del 1851, si chiude l’epoca che ha trasformato per sempre l’istituzione museale in una realtà democratica e nazionale, indispensabile in un paese civilizzato. Attendiamo di scoprire nel terzo volume quale sarà la sua evoluzione.

Alessandra Cioppi

(Notiziario n. 112, marzo 2023, pp. 9-10)

Paulo Irineu Barreto Fernandes, «Ensaio Sobre “The Dark Side of the Moon” e a Filosofia: uma interpretação filosófica da obra-prima do Pink Floyd», Maringá, Viseu, 2021

Paulo Irineu Barreto Fernandes, Ensaio Sobre The Dark Side of the Moon e a Filosofia: uma interpretação filosófica da obra-prima do Pink Floyd, Maringá, Viseu, 2021, 245 pp.

Há algo que incomoda na Filosofia acadêmica. Trata-se desta espécie de rigor que mais parece rigor mortis. Há um excesso de respeito que tolhe a criação. Por outro lado, principalmente nas redes sociais, observamos todo tipo de clichês ditos de orelhada a respeito de tal e tal filósofo. Parece-me que há um caminho criativo entre estes dois pólos: aquele que usa a filosofia como um modo de apropriação do mundo e da cultura. Alguns chamam de Filosofia Pop. Encaro como um jeito mais criativo de se fazer filosofia, sem se prender a um ou outro filósofo; mas, primordialmente, ao objeto de estudo.

É nesta seara que se inscreve o Ensaio Sobre Dark Side of the Moon e a Filosofia: uma interpretação filosófica da obra-prima do Pink Floyd. Os conceitos estão lá e são conhecidos e explicitados, mas cada um deles só é acionado quando a obra requer. É assim que o autor constrói sua análise de um dos álbuns mais importantes dos últimos cinquenta anos. Fernandes narra a história do Pink Floyd desde os primórdios. Traz a liderança e a loucura de Syd Barrett, mas se atém mesmo ao escrutínio das letras do disco mais importante da banda inglesa. São acionados, para elucidar e alargar a compreensão da obra, desde os pré-socráticos à escola de Frankfurt, passando por Santo Agostinho e o geofilósofo Milton Santos.

O que mantém a linha de coerência narrativa é o próprio objeto: o disco. Ao longo de mais de duzentas páginas, Fernandes tece um grande diálogo, uma roda de conversa sobre os temas profundamente humanos e filosóficos que transpassam as canções: a morte, a vida, a respiração, a passagem do tempo, a ganância, o dinheiro, o capitalismo. Como fã da banda e estudioso apaixonado por Filosofia, indico sem restrições. 

Daniel Lopes Guaccaluz

(Notiziario n. 112, marzo 2023, pp. 8-9)

Maria Cassella, «Come allestire e comunicare le mostre in biblioteca», Milano, Editrice Bibliografica, 2021

Maria Cassella, Come allestire e comunicare le mostre in biblioteca, Milano, Editrice Bibliografica, 2021, 50pp.

In previsione dell’evento di aprile, che vedrà il nostro centro di ricerca alle prese con l’apertura straordinaria della biblioteca, abbiamo scelto il manuale in oggetto per approfondire le strategie più adatte alla realizzazione della manifestazione e per pianificarla al meglio. Il manuale appartiene alla collana «Library Toolbox», pensata come un contenitore di strumenti e proposte pratiche per gli operatori del settore bibliotecario.

L’esergo scelto da Maria Cassella per il suo volume è un tweet del professore e direttore della School of Library & Information Science dell’Università del South Carolina David Lankes, che recita: «Bad libraries build collections, good libraries build services, great libraries build communities». L’aforisma ben si adatta all’argomento proposto dal libro, che racconta le biblioteche come luoghi sociali e come ‘conversazioni’, e in quanto tali necessitano di strategie adatte per essere comunicate.

Maria Cassella, responsabile dell’Area servizi bibliotecari del Campus Luigi Einaudi di Torino e direttrice della Biblioteca “Norberto Bobbio” dell’ateneo torinese, guida il lettore verso l’allestimento di una mostra bibliografica, uno dei principali metodi per promuovere la biblioteca e le relative collezioni. Partendo dall’importanza della comunicazione in qualsiasi tipo di mostra, si addentra nel campo bibliotecario, fornendo suggerimenti circa le migliori pratiche da attuare per realizzare un evento di successo.

Infatti, grazie all’attenzione sempre maggiore verso la Terza missione, recentemente nelle biblioteche sono state organizzate un numero crescente di mostre, con lo scopo di far conoscere il fondo bibliografico ad un nuovo pubblico, di valorizzare l’offerta culturale, di promuovere il proprio patrimonio e con altri obiettivi declinati a seconda della tipologia di ogni istituzione. Ma le mostre non sono eventi ordinari nelle biblioteche, che spesso sono concepite solo come luoghi di studio e di altre attività, come ad esempio presentazioni di libri, gruppi di lettura o corsi di formazione. E, quando vengono realizzate delle esposizioni, l’attenzione è focalizzata solo sul tema e sui contenuti, trascurando l’aspetto essenziale della comunicazione, relegato a mera attività secondaria, ma messo qui in rilievo dall’autrice.

Il percorso dell’organizzazione parte dall’individuazione del motivo della mostra, con conseguente selezione del tema e dei volumi da esporre. Nel momento in cui il libro viene utilizzato come oggetto d’arte, e dunque espositivo, il suo significato può differire dal suo contenuto: come nell’esempio riportato dalla studiosa, se il libro viene esposto in quanto manufatto (magari antico o con incisioni caratteristiche), esso comunicherà non tanto i suoi contenuti, quanto la sua forma. Di discreta importanza è dunque anche la disposizione di tali volumi, che indicheranno il percorso al visitatore. Cassella si sofferma anche sul miglior tipo di espositore da usare a seconda dell’oggetto, come leggii per i volumi aperti e vetrine a temperatura controllata per manoscritti preziosi.

Una volta stabilito il contenuto e ciò che si vuole comunicare con la mostra, è necessario decidere come comunicare la mostra stessa. A questo tema, l’autrice dedica tre capitoli: «Il sistema di supporti comunicativi esterni», relativo ai segnali utilizzati per catturare l’attenzione del visitatore, come i manifesti, ed accompagnarlo nella decodifica dei simboli della mostra, come le didascalie; «I supporti comunicativi digitali», sull’utilizzo della tecnologia in ambito museale, come i codici QR per gli approfondimenti o la riproduzione di video in loco, recuperabili anche sui relativi siti; «Oltre la promozione e la comunicazione: i social per raccontare una mostra», sulle molteplici potenzialità dei canali social per coinvolgere il pubblico e per raccontare la mostra ‘oltre la mostra’, con immagini del backstage, curiosità ed azioni partecipative.

Il manuale termina con un approfondimento sulle mostre virtuali, decisamente all’avanguardia e figlie del lockdown, con esempi tratti da diverse biblioteche italiane. Nelle conclusioni, l’autrice ribadisce due concetti fondamentali: gli strumenti comunicativi sono al servizio della mostra, non devono diventare i protagonisti togliendo spazio ai contenuti; inoltre, ogni mostra comunica, al di là delle proprie dimensioni e del budget di riferimento. Con un’attenta analisi degli obiettivi e del pubblico, e grazie alla lettura del volume in oggetto, si potranno acquisire competenze per allestire e gestire una mostra bibliografica di effetto, seguendo delle linee guida molto semplici ma precise: cosa si vuole comunicare, a chi lo si vuole comunicare, dove è meglio comunicarlo e come comunicarlo nel modo più opportuno.

Martina Mattiazzi

(Notiziario n. 112, marzo 2023, pp. 7-8)

“Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ‘900”, n. 4, Ottobre – Dicembre 2022

Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ‘900, n. 4, Ottobre – Dicembre 2022, pp. 503-658, https://www.rivisteweb.it/issn/1127-3070

Contemporanea è una rivista trimestrale che tratta aspetti politici, sociali, storici e culturali dalla fine del Settecento fino ai giorni nostri. Le proposte pubblicate hanno superato il rigoroso giudizio della peer review, possono provenire da tutti i continenti ed essere formulate in differenti idiomi.

La rassegna è inaugurata da Michele Magri, strutturato presso l’università di Pisa e collaboratore dell’Ecole des Hautes-Etudes en Science Sociales. Il suo contributo è intitolato «Malheureux Proscrits» e tratta degli esuli italiani che dopo i moti risorgimentali del 1830 si sono rifugiati in Francia, retta in quel periodo dalla monarchia costituzionale di Luigi Filippo duca d’Orléans. Il saggio indaga su come l’opinione pubblica parigina abbia accolto questi militanti espatriati dal Bel Paese.

Giulio Fugazzotto ha conseguito un dottorato presso l’università degli Studi di Urbino. Nella sua disanima considera l’atteggiamento del Partito laburista inglese nei confronti della guerra d’Etiopia voluta da Benito Mussolini e indaga le varie sensibilità presenti nella formazione partitica: quella pacifista, ma anche quella meno incline a una mediazione con Roma. L’autore osserva come queste dinamiche talvolta contrapposte abbiano influito sulle scelte che i rappresentanti britannici hanno adottato presso la Società delle Nazioni.

Corrado Torninbeni, professore associato di storia e istituzioni dell’Africa presso l’università di Bologna, narra la creazione e l’evoluzione della Conferência das organizações nacionalistas das colónias portuguesas in Africa. Quest’organismo, fondato a Casablanca nel 1961 e voluto dal politico della Guinea Bissau Amílcar Lopes da Costa Cabral, ha incoraggiato a livello sociale e diplomatico l’indipendenza dei territori africani che da molti secoli erano soggetti al dominio portoghese.

Federico Creatini, assegnista di ricerca dell’Università di Pisa, ha evidenziato qui la personalità di Maria Eletta Martini, partigiana e insegnante che dagli anni ’60 ha ricoperto numerosi incarichi a Montecitorio e a Palazzo Madama come esponente della Democrazia Cristiana. Tra il 1976 e il 1978 è stata presidentessa della Commissione Igiene e Sanità Pubblica. La lungimiranza della politica lucchese ha portato il Parlamento ad approvare la «Legge 833» del 1978, che ha istituito il «Servizio Sanitario Nazionale». Oltre ad occuparsi delle dinamiche assembleari, lo studioso si è documentato sul ruolo del volontariato e delle associazioni caritative.

Nella sezione «Confronti» un gruppo di autori, tra cui il professore e giornalista Giovanni Orsina, si interrogano sul ruolo politico della storia. Nell’area «laboratori» si può reperire l’originale contributo di Maartje Abbenhuis, uno studioso dell’università di Auckland. Il congresso di Vienna e le relazioni diplomatiche non vengono più considerate da una prospettiva austro centrica, ma in maniera più globale, contemplando le speranze degli attori statali meno egemonici.

Andrea Mariuzzo, professore associato dell’università di Modena e Reggio Emilia, esordisce ricordando che Gary McCulloch, della Bloomsbury Academic, ha pubblicato una storia dell’educazione culturale in sei volumi. Questo monumentale compendio permetterà la rivalutazione dello studio dei comportamenti individuali e delle relazioni collettive che si sono susseguiti nelle società occidentali.

L’ultima proposta della rivista è firmata da Chiara Beccalossi, che si concentra sulla storia della sessualità e delle identità non conformi, confermando che questi argomenti sono stati accolti dal dibattito accademico solamente dopo gli anni ’70 del ventesimo secolo.

Roberto Riva

(Notiziario n. 112, marzo 2023, pp. 6-7)

“Latin American Theatre Review”, n. 51/2, 2018

Latin American Theatre Review, n. 51/2, 2018, 312 pp.

Sebbene il numero che qui recensiamo non sia di ultima pubblicazione, ci fa piacere proporre la sua lettura per i contenuti, sempre attuali, che lasciano spazio a considerazioni molto interessanti. Ricordiamo che la rivista è pubblicata due volte all’anno dal Dipartimento di spagnolo e portoghese dell’Università del Kansas e fondata nel 1967. LATR copre tutti gli aspetti del teatro e dello spettacolo latino e latinoamericano ed è cresciuta fino a diventare una delle principali riviste accademiche nel suo campo. La pubblicazione è anche online e offre l’accesso gratuito ai numeri arretrati oltre ad un archivio comprende più di 1.000 articoli di accademici, notizie, programmi teatrali e recensioni di libri e spettacoli.

Il saggio di apertura è a firma di Severino J. Albuquerque che interviene con «Tullio Carella’s Recife Days: Politics, Sexuality, and Performance in Orgia» in cui si contestualizza l’esperienza vissuta a Recife da Carella attraverso l’alter ego Lucio Ginarte. il saggio mostra come la visibilità di Carella nella vivace scena letteraria e teatrale di Buenos Aires negli anni Quaranta e Cinquanta sia quasi scomparsa sulla scia dello ‘scandalo’ di Recife e della successiva pubblicazione della prima edizione di Orgia in cui l’intensa esperienza dei sensi viene trascritta con una forte carica erotica senza tralasciare alcun particolare.

Janneth Aldana Cedeño discute sulla maggior parte della creazione artistica di Santiago García e, per estensione, del gruppo Teatro «La Candelaria» sotto la sua direzione, mentre Andres Amerikaner cerca di risolvere la persistente questione dello status di Virgilio Piñera, drammaturgo cubano, intellettuale anticonformista, quale progenitore dell’‘assurdismo’ del quale traccia l’evoluzione stilistica esplorando le sue connessioni con i circuiti intellettuali di quel periodo.

Mary Barnard presenta un’opera, Hatun Yachaywasi, prodotta dal gruppo teatrale Puno Yatiri che descrive la migrazione da rurale a urbana del suo protagonista, Chawpi, intesa come cancellazione della tradizione, della cultura e della conoscenza indigena. Il saggio di Yeliz Biber Vangölü si sofferma su come la costruzione di spazi alternativi nel teatro possa sfidare le principali modalità della spazialità concentrandosi poi sull’opera teatrale Enter the Night (1993) della drammaturga cubano-americana Maria Irene Fornes. Trevor Boffone esamina l’archetipo della ‘donna cattiva’ de «La Llorona» e come esso è stato usato per destabilizzare i discorsi patriarcali nel teatro chicano. Interessante il saggio di Maria de la Luz Hurtado che evidenzia l’intento del drammaturgo Andrés Pérez di trasmettere nell’opera La Huida un profondo trauma personale raccontando un omicidio di stato omofobico non rivelato, perpetrato in Cile nel 1929. Prosegue Ana Lidia García Peña che presenta la storia della vita di Virginia Fábregas, una grande diva del Messico all’inizio del ventesimo secolo e la cui discussione si incentra sui temi quali: i mutamenti del teatro tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; la vita artistica di Fábregas, il suo teatro, la sua immagine di eleganza e il suo divorzio complesso e scandaloso.

Lo studio di Gilberto Icle, Milena Ferreira Mariz Beltrão e Isadora Pillar Vieira stabilisce un ponte tra il processo di creazione dello spettacolo Cinco Tempos para a Morte e la genetica del teatro, utilizzando i principi di quest’ultima che fornisce uno strumento metodologico importante per comprendere non solo il prodotto finale (lo spettacolo), ma anche il processo di creazione collettiva (le prove) dello spettacolo ideato ed eseguito tra il 2010 e il 2011. Il contributo di Marin Laufenberg mette a fuoco l’interazione tra i livelli di osservatori e gli osservati nell’opera di Griselda Gambaro del 1986, Antígona furiosa in cui la Gambaro usa il mito come luogo ideale per un discorso politico.

Segue lo studio di Maybel Mesa Morales nel quale si esplora l’opera di Lucía Laragione Cocinando con Elisa (1993): un’opera della drammaturgia argentina che interpreta in chiave simbolico-allegorica la tortura come essenza di strumento di dominio della dittatura argentina sul corpo femminile. Natacha Osenda ci conduce a profonde riflessioni sulla questione dei bambini scomparsi durante l’ultima dittatura militare argentina (1976 -1983) attraverso l’opera teatrale di Patricia Zangaro, A propósito de la duda.

L’articolo di Maria Teresa Sanhueza ripercorre la storia di «El Rostro» il leggendario Teatro de la Universidad de Concepción (TUC), che è stato il teatro universitario regionale più attivo negli anni ’50 e ’60. Durante gli anni di Pinochet, quando la maggior parte delle compagnie ha interrotto i propri sforzi artistici a causa della censura e della persecuzione politica, «El Rostro» è stato l’unico collettivo che è riuscito a adattarsi, cambiare e sopravvivere. Concludiamo con lo studio di Josh Stenberg che recupera Cuba e il Perù (soprattutto L’Avana e Lima) come nodi principali dell’opera cantonese tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, delineando la ricezione e l’eredità di queste connessioni transpacifiche.

Emilia del Giudice

(Dal Notiziario n. 112, marzo 2023, pp. 5-6)

Ulisse Aldrovandi e le novità dell’altro mondo

ULISSE ALDROVANDI E LE NOVITÀ DELL’ALTRO MONDO

Alessandra Cioppi
(CNR – ISEM – Università di Milano)

L’8 dicembre 2022 si è inaugurata a Bologna, presso il Museo di Palazzo Poggi, la mostra dal titolo L’altro Rinascimento. Ulisse Aldrovandi e le meraviglie del mondo, la cui chiusura è prevista il 10 aprile 2023.

L’esposizione è stata curata nell’ambito delle Celebrazioni aldrovandiane (1522-2022) dal Comitato Nazionale Ulisse Aldrovandi, costituito dal Sistema Museale d’Ateneo dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, sotto la conduzione scientifica di Roberto Balzani, Giuseppe Olmi e Giovanni Carrada, dalla Biblioteca Universitaria di Bologna, con la direzione di Francesco Citti e Giacomo Nerozzi, e, infine, dall’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche in accordo con il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, sotto la guida scientifica di Alessandra Cioppi e Maria Elena Seu. Il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha reso possibile l’allestimento del percorso museale e delle installazioni digitali. 

L’altro Rinascimento, mostra ideata in occasione del V Centenario della nascita di Ulisse Aldrovandi (Bologna, 11 settembre 1522 – 4 maggio 1605), naturalista, botanico, medico ed entomologo del Cinquecento-Seicento, si presenta come un’opportunità culturale e allo stesso tempo come una grande sfida. L’opportunità consiste nella valorizzazione del corpus aldrovandiano, una smisurata collezione che viene analizzata ed esposta con grande rigore scientifico nelle splendide sale affrescate di Palazzo Poggi. La sfida, invece, è caratterizzata dal tentativo di intercettare un pubblico il più possibile ampio per rendere l’esposizione di questo eccezionale patrimonio culturale un’espressione tangibile dell’impegno scientifico e divulgativo propri del naturalista e collezionista bolognese, personaggio di grande caratura del Rinascimento italiano, anche se, forse, meno noto di altri scienziati, artisti e letterati dell’epoca.

In verità, Ulisse Aldrovandi era già considerato, presso il pubblico colto internazionale a lui contemporaneo, un’icona dell’impegno scientifico in quella prospettiva che ora potremmo definire ‘interdisciplinare’, ed era ritenuto un illuminato precursore di quell’approccio metodologico oggi chiamato ‘Terza Missione’. Per Aldrovandi, infatti, il trasferimento scientifico e culturale delle conoscenze fu sin dal principio molto chiaro: era fondamentale poter passare dalla realtà di una collezione privata alla sua comunicazione universale attraverso la rappresentazione pittorica e il libro a stampa illustrato. Per raggiungere questo obiettivo Aldrovandi aveva allestito una vera e propria impresa culturale, era riuscito a ‘creare reti’ con colleghi, specialisti, scienziati e ‘imprenditori’ contemporanei. Difficile immaginare qualcosa di più prossimo al suo desiderio di diffondere il sapere, di contaminare la società civile, di disseminare i risultati della ricerca sul territorio, attività che ai giorni nostri sentiamo appartenere strutturalmente alla ‘Terza Missione’ delle Università e del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

L’eredità scientifica di Ulisse Aldrovandi, tuttavia, non si ferma qui. Comprende un’altra intuizione, la quale, malgrado i cinquecento anni trascorsi, lo rende uomo del nostro tempo: la tutela del patrimonio culturale da lui raccolto che volle donare al Comune di Bologna perché fosse reso pubblico. Ciò gli permise di salvare i suoi volumi di erbari, le carte, i libri, i disegni e svariati oggetti, impedendone la dispersione e consegnandoli alle generazioni future.

Le sue collezioni sono incredibilmente estese e assolutamente intellegibili nonostante la distanza di mezzo millennio. Esse presentano una documentazione dettagliata dei processi culturali, delle relazioni intellettuali, della selezione e della classificazione di piante ed esseri viventi, dei supporti editoriali e grafici utilizzati per la trasmissione e la disseminazione ‘a distanza’ dei risultati della sua ricerca, grazie ai disegni acquarellati, dapprima, e alla stampa, poi. La raccolta delle ‘cose di natura’ e la loro rappresentazione plastica conferiva alle nozioni teoriche una concretezza sperimentale: i reperti del mondo vegetale, animale, minerale potevano essere direttamente e diversamente osservati. Un unicum per l’Europa del tempo e quindi, considerando il periodo di riferimento, del mondo. Lo stesso Aldrovandi nella sua autobiografia ricorda come «prìncipi, signori et persone letterate andassero a visitare con maraviglia in casa sua quella specie di ‘teatro di natura’».

Nel percorso espositivo della mostra, allestita dal Comitato aldrovandiano, non doveva mancare, quindi, quel processo di ripensamento del ‘fenomeno Aldrovandi’ che avrebbe consentito, lungo un’unica trama logica e narrativa, l’esposizione dei pezzi più significativi di quel ‘microcosmo di natura’ che, proprio lui per primo, aveva voluto rendere pubblico e proporre alla nostra curiosità.

L’altro Rinascimento ripercorre e racconta un episodio fondamentale del Rinascimento italiano, tanto importante quanto poco conosciuto perché messo in ombra, forse, dagli innumerevoli capolavori dell’architettura e dell’arte che tutto il mondo riconosce. Aldrovandi, invece, insieme a un piccolo gruppo di medici e naturalisti, ha saputo gettare le basi del nostro immaginario visivo sull’universo della natura e ha contribuito a creare il mondo moderno, aprendo la strada allo studio della storia naturale che ha poi continuato nei secoli a seguire.

Erbari secchi ed erbari acquarellati, matrici xilografiche per la stampa delle ‘cose di natura’, disegni ed esemplari di piante e animali, manoscritti, codici, strumenti in gran parte mai esposti prima e libri che costituiscono una preziosa testimonianza sulla storia delle scienze della vita (botanica, zoologia, paleontologia, veterinaria, antropologia, anatomia umana), sono ‘cuciti insieme’ in un racconto espositivo che, sala dopo sala, li fa parlare, prendendo per mano il visitatore, affascinandolo ed accompagnandolo sin dall’ingresso in un viaggio nel passato alla scoperta delle radici del presente.

Come gli altri naturalisti del Cinquecento che riprendono lo studio della storia naturale, Ulisse Aldrovandi parte dalle opere degli autori classici, quali Aristotele, Dioscoride e Plinio, considerati vette di conoscenza e difficili da superare. Dal continente americano, però, scoperto qualche decennio prima, cominciano ad arrivare esemplari, disegni e racconti di piante e animali sconosciuti nel Vecchio Mondo, raccolto intorno alle rive del Mediterraneo. Dalle Americhe giungono nuove notizie, manufatti e codici di popoli di cui persino la Bibbia ignora l’esistenza. Un vero e proprio shock culturale per l’uomo del Rinascimento; eppure, Aldrovandi fu senza dubbio l’intellettuale bolognese che più si impegnò nello studio e nella raccolta di molti materiali provenienti dal Nuovo Mondo. Appartengono alla sua collezione di manufatti americani due oggetti di grande bellezza: una testina in serpentino verde, da lui chiamata «l’idolo col cappello», e una maschera lignea rivestita di mosaico che raffigura Yacatecuhtli, il ‘Signore del Naso’, dio patrono dei mercanti aztechi. Ma l’esemplare messicano sicuramente più straordinario che campeggia nelle sale di Palazzo Poggi in tutta la sua bellezza pittorica e policroma è il Codice Cospi, un manoscritto divinatorio realizzato da pittori nahua nel XV-XVI secolo, giunto a Bologna grazie al frate domenicano Domingo de Betanzos, il quale costituisce uno dei soli tredici manoscritti mesoamericani precoloniali esistenti al mondo.

L’altro Rinascimento, dunque, non è un percorso di mostra convenzionale ma la restituzione delle tappe, anche suggestive, che scandiscono il ‘pianeta’ Aldrovandi. Un tracciato che ci appare come la ‘memoria’ di un’esposizione, come la rappresentazione di un progetto di divulgazione scientifica ‘contemporanea’ che racchiude in sé uno spettacolare tentativo di divulgazione scientifica ‘arcaico’.

Una tale configurazione museale credo sia la prima volta che accade e questa, forse, è una ragione in più per visitarla con interesse ed attenzione.

Le pagine di riferimento della mostra sono:

https://site.unibo.it/aldrovandi500/it/mostra-altro-rinascimento-ulisse-aldrovandi;
Sistema Museale di Ateneo;
Museo di Palazzo Poggi;
@museiunibo

(Notiziario n. 111, gennaio 2023, pp. 16-18)